Missioni Consolata - Maggio 2021
47 maggio 2021 © Mauricio Zina tempo non solo trovò lavoro e mise su famiglia, ma organizzò la comunità, fondò scuole, chiese, associazioni, giornali, radio, cori, festival musicali. Così curarono l’identità perseguitata dall’Impero ottomano, la misero in salvo dall’oblio», ragiona con orgoglio Diego, descrivendo l’attività dei primi armeni di Uruguay. «Sono arrivati sapendo che non c’era un biglietto di ritorno, hanno co- struito qui la patria che avevano perso. Si sono riuniti attorno al centro di Montevideo, dove c’erano le industrie. E forse c’è anche una ragione geografica e nostalgica: andarono lì perché cerca- vano le montagne del loro paese», continua Diego. I primi arrivati, all’inizio, lavoravano come operai, in attività che non richiedevano la cono- scenza dello spagnolo. Poi, si dedicarono ai pic- coli commerci e alle botteghe, agli almacenes. Nei vecchi edifici nella parte occidentale della città, ci sono ancora insegne in spagnolo e ar- meno. L’ex presidente Tabaré Vazquez raccontava che nel suo quartiere, La Teja, la sua famiglia, in un periodo di ristrettezze, aveva ricevuto aiuto e cibo da un commerciante armeno. «Qui gli armeni si sono fatti volere bene e hanno contribuito alla costruzione del paese. Non ci siamo ghettizzati, al contrario. Prima di tutto siamo armeni, ma siamo uruguaiani: tifiamo Na- cional e Peñarol (i due club di calcio più seguiti del paese, ndr), abbiamo visto l’Uruguay due volte campione del mondo. La nostra cucina si è mescolata con quella uruguaiana: qui puoi man- giare un buonissimo lehmeyun (una specie di pizza armena, ndr ) con aggiunta di mozzarella lo- cale. Abbiamo ricevuto accoglienza e riconosci- mento: a Montevideo si può passeggiare su Rambla Armenia, ci sono monumenti e targhe che ricordano il genocidio, e il 24 aprile è il Giorno della Memoria. Se in Armenia dici che sei urugua- iano, ti si aprono le porte», spiega Diego. Difendere l’identità armena «È il negazionismo che mi fa rabbia. Io sono la prova viva del genocidio. Se non ci fosse stato, semplicemente non sarei qui. Me lo ha spiegato uno psicologo: ci teniamo così tanto alla nostra identità perché il nostro è un trauma non ricono- sciuto», racconta Daniel. Ma oggi l’identità della comunità in Uruguay è a rischio: «Mio figlio non parla l’armeno, non si interessa molto alla storia, non vive il mio stesso trauma. Ma se per strada gli gridano “armeno” si gira. È la quarta generazione, l’identità col tempo si perde», confessa un po’ sconsolato Daniel. «In Libano, Turchia, Siria, l’identità armena si man- tiene attraverso la religione cristiana ortodossa: essere armeni è un modo per non essere musul- mani. Qui in Uruguay, un paese così laico, il tema religioso non è conflittuale. Quindi, è più difficile curare l’identità», ragiona Diego. Che prosegue un po’ sconfortato: «La lingua è un problema, è difficile, pochi la parlano e pochissimi la inse- gnano, non si parla più in famiglia». Ma poi ha un guizzo: «A volte la curiosità risorge. C’è chi segue corsi online di armeno, adesso c’è anche un corso universitario. E poi, con internet, molti seguono le notizie dell’Armenia, come adesso con il conflitto del Nagorno Karabakh. Si sta affievolendo l’iden- tità, ma non scomparirà. L’identità è volontà», con- clude con un po’ di speranza. Federico Nastasi Una parentesi tranquilla Già nel 1965, l’Uruguay riconobbe il genocidio degli Armeni. “
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