Missioni Consolata - Giugno 2020

stemato. Voleva notizie dei figli, visto che non poteva più nem- meno parlarci. Poteva vederli in foto, che le infermiere avevano attaccato alla parete, su un car- tellone. Erano giorni difficili e dolorosi. Poi la situazione peg- giorò e i medici decisero di in- tubarlo . Mi spiegarono che era per farlo soffrire di meno e aiu- tarlo a superare quel momento. Era giovedì 27 marzo. Carlo era sedato e non si rendeva più conto di nulla. Negli ultimi giorni della sua vita ebbi la fortuna di essergli al fianco, quando ancora riusciva a parlare, a collaborare con i me- dici. Ricordo che una volta lui chiese un bloc notes e una penna per scrivere alcune cose: consigli per i medici che erano in visita dentro la sua stanza. Spesso ebbi la chiara sensa- zione che lui si rendesse perfet- tamente conto di cosa lo aspet- tasse, perché aveva seguito i malati all’interno dell’Ospedale francese, aveva visto morire pa- zienti che facevano fatica a re- spirare e sapeva come si moriva in quelle circostanze, ma non disse mai nulla. Soffriva molto per i dolori, ma anche per la consapevolezza che ormai era rimasto poco tempo. Quando un sacerdote si Scoppiavo a piangere quando non ero sicura di aver eseguito tutte le procedure corretta- mente: dai calzari doppi, ai guanti, ai doppi camici, alla maschera, che mi faceva man- care l’aria . Ricordo che ero preoccupata di non riuscire a metterla nel modo corretto. I medici non parlavano la mia lingua né il francese e, quindi, facevo fatica a capirli. Una volta entrata, spesso chie- devo addirittura a Carlo di aiu- tarmi a sistemare quella male- detta maschera. Restavo poco tempo, anche perché negli ul- timi giorni Carlo era molto affati- cato. Si alzava sempre meno e la tosse era persistente. Du- rante quei giorni non mi fece mai capire la sua preoccupa- zione, mai mi parlò della paura di morire. Mi ripeteva solo che, piano piano, tutto si sarebbe si- recò a trovarlo nella sua stanza, dopo un breve colloquio, gli disse: «Dalla vita ho avuto tutto, ho realizzato i miei sogni, ho fatto tanto, sono pronto... L’u- nica cosa che mi fa star male è dover lasciare i miei figli». Aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora. La mattina del 29 marzo, verso le 12, bussarono alla porta del mio albergo. Era il rappresen- tante dell’Oms di Bangkok. Ca- pii subito cosa era successo. Oggi, quando penso alle mi- gliaia di malati costretti in ospe- dale da soli, senza avere un fa- miliare accanto, mi rattristo su- bito perché i ricordi mi assal- gono e perché ho provato sulla mia pelle cosa significa avere un proprio caro colpito da un vi- rus come questo. È terribile dover abbandonare qualcuno nella solitudine . È ter- ribile la sensazione di sentirsi abbandonati dalle persone più care, non poter stringere la mano di chi, magari per una vita, ti è sempre stato accanto, il non poter scambiare una parola di conforto. Almeno in questo, Carlo ha avuto fortuna: prima di morire, ha potuto stringere la mano di qualcuno, scambiare due parole. Non è morto in soli- tudine. 55 Giugno 2020 MC MC A Qui sopra: un soldato vietnamita sparge disinfettante all’entrata dell’Ospedale Francese di Hanoi, considerato il focolaio della Sars in Vietnam (17 aprile 2003). A sinistra: uno zibetto in un mer cato di animali selvatici («wet market») a Wuhan: si ritiene che il virus sia transitato da luoghi come questo, passando dagli animali all’uomo (zoonosi). Si rimanda alle pp. 57 60. * © Hoang Dinh Nam / AFP " Avendo seguito i pazienti, Carlo era ben conscio di cosa lo aspettasse.

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