Missioni Consolata - Maggio 2020

49 maggio 2020 Tanti mondi, una terra E tuttavia vi è un discidium inter Evangelium et culturam , una rottura, che si spiega con il fatto che il Vangelo e l’evangelizzazione «non si iden- tificano con la cultura e sono indipendenti ri- spetto a tutte le culture». L’evangelizzazione non può fare a meno di ca- larsi nelle culture, di diventare essa stessa cul- tura, ma la sua prerogativa è quella di «penetrare» profondamente in tutte le culture e «impregnarle», senza con ciò «asservirsi ad al- cuna». Anzi, il Vangelo ha una forza dirompente nei confronti delle culture esistenti: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popola- zioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere ( evertere ) mediante la forza del Vangelo ( Evangelii potentia ) i criteri di giudi- zio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono «in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza» (par. 19 - Denzinger 2003: 4575). La verità cristiana e il fine ultimo È su questo sfondo tematico che occorre inter- pretare il concetto di inculturazione. Nell’enci- clica Redemptoris Missio del 1990, Giovanni Paolo II intende tutta l’attività missionaria come avente lo scopo di inserire la Chiesa «nelle culture dei popoli», di provvedere dunque al «radicamento del cristianesimo nelle varie culture» (1991: § 52). Paolo VI in un discorso a Kampala aveva parlato di una vera e propria «incubazione» della verità cristiana nelle culture altrui. «Proseguendo nella metafora», possiamo dunque dire che «i missio- nari (parte attiva) sono coloro che penetrano nelle culture e le inseminano, facendo in modo che il germe attecchisca e si sviluppi in armonia con il Vangelo e con la chiesa universale» (Re- motti 2011: 56). Il fine è pur sempre quello chiarito in maniera indiscutibile nell’ Ad gentes , ossia entrare nelle culture, separare ciò che è compatibile con il messaggio evangelico da ciò che non è compati- bile, al fine di costruire «l’uomo nuovo», come era stato predicato nelle lettere di san Paolo e come ritorna più volte nell’enciclica citata (par. 8, 11, 12, 21). Nell’ Ad gentes si afferma in modo inequivoco che la costruzione dell’umanità nuova è non sol- tanto «compito imprescindibile» della Chiesa, ma anche suo «sacrosanto diritto». Leggiamo in Ad gentes (par. 8): «“Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1, 15). E poiché chi non crede è già condannato (Gv 3, 18), è evidente che le parole di Cristo sono insieme parole di con- danna e di grazia, di morte e di vita. Soltanto fa- cendo morire ciò che è vecchio possiamo perve- nire al rinnovamento della vita. E ancora: «La ragione dell’attività missionaria di- scende dalla volontà di Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla cono- scenza della verità. Vi è infatti un solo Dio, ed un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, uomo anche lui, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 4-6), e «non esiste in nessun altro salvezza» (At 4, 12). È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attra- verso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo (par. 7). I missionari che avevano rimbrottato il vecchio giudice seguivano esattamente queste linee dell’ Ad gentes . Conoscevano le culture indigene, ma di fronte al «piano divino nel mondo e nella storia», di cui «l’attività missionaria non è altro che la manifestazione, cioè l’epifania e la realiz- zazione» (par. 9), le culture - come il vecchio giudice catechista - devono recedere: devono la- sciarsi trasformare in un campo da inseminare. Vangelo ed evangelizzazione: alcuni dilemmi A me pare di trovarmi in un altro momento sto- rico rispetto al Concilio Vaticano II. Come pure sostiene Mario Menin nel suo libro, «a cin- quant’anni dalla fine del concilio (1965), la mis- sione è molto cambiata» (Menin 2016: 121). L’idea della plantatio ecclesiae - così evidente, a mio parere, in tutta la prima parte dell’ Ad gentes , dove in effetti si parla espressamente di plantatio Ecclesiae in populis (par. 6) - è stata in gran parte accantonata: la nuova idea di missione conosce la «svolta antropologica […] della teologia del Novecento» e l’inculturazione o l’inreligionizza- zione sono concepite quali procedure di un’atti- vità missionaria che «accetta il mondo, le religioni e le culture come interlocutori» (Menin 2016: 122). Le cose ovviamente non sono così semplici: alla base vi è pur sempre il «tormen- tato rapporto Vangelo-culture» (2016: 139). Se le culture diventano protagoniste o coprota- goniste, se alle culture indigene si riconosce un ruolo attivo, che ne è del Vangelo? Possono an- cora il Vangelo e la conseguente evangelizza- zione essere considerati come fattori indipendenti, come manifestazione di una verità assoluta, che prescinde dai contesti storici e cul- turali, oppure Vangelo ed evangelizzazione sono anch’essi manifestazioni e realizzazioni culturali dell’umanità? Vangelo e culture, una distanza che si riduce Le relazioni tenute al Convegno dei missionari e missionarie della Consolata (Roma, 14-18 ottobre 2019) non sono giunte dichiaratamente a questi esiti. Tuttavia, l’insistenza sui temi del dialogo e della condivisione; dell’incontro e dell’apertura; A sinistra: una venditrice congolese si reca al mercato di Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, con un carico di «sambaza», piccoli pesci del lago Kivu.

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