Missioni Consolata - Maggio 2020

45 maggio 2020 © Abel Kavanagh / Monusco l’esistenza delle divinità altrui? E se queste argo- mentazioni rendevano conto del fatto che i Ba- nande non opposero alcuna resistenza all’arrivo della divinità dei Bianchi, perché mai esse non dovevano valere per gli spiriti e le divinità locali? «Anche noi abbiamo i nostri avalimu » aveva dunque il significato di una richiesta di riconosci- mento: il vecchio giudice non chiedeva che gli europei (missionari o laici che fossero) parteci- passero ai loro culti e ai loro sacrifici; chiedeva soltanto che si riconoscesse il diritto, da parte dei Banande, di venerare tanto il nuovo Dio (quello della chiesa costruita in mattoni), quanto gli ava- limu , gli spiriti a cui erano dedicate minuscole capanne sparse qua e là sulle colline. Per i missionari - anche per i missionari del se- condo tipo, quelli che si ponevano esplicita- mente nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II - la coesistenza invocata dal vecchio giudice era del tutto inammissibile. Nonostante la sua età avanzata e la sua autorevolezza, il vecchio giu- dice fu sottoposto a una dura lezione di mono- teismo e, beninteso, non di un monoteismo generico, bensì del monoteismo forgiato da ciò che Jan Assmann (famoso egittologo tedesco, ndr ) ha chiamato la «distinzione mosaica», ov- vero il principio secondo cui il «nostro» Dio non è soltanto un Dio unico, ma è anche l’unico «vero» Dio: gli altri sono idoli, falsi dèi, con cui non si può convivere e che, anzi, occorre distrug- gere (Assmann 2011: 15, 25). I missionari e il diffondersi del dubbio L’episodio del vecchio giudice avvenne nel 1976, proprio all’inizio della mia esperienza tra i Ba- nande. Vent’anni dopo, nel 1996, incontrai a Kin- shasa un gruppetto di giovani missionari: erano i missionari della Consolata. Anche per questi missionari il riferimento al Concilio Vaticano II era d’obbligo. Ciò che però mi aveva colpito, ri- spetto ai missionari del primo e del secondo tipo, era l’emergere di un - per me inatteso - spi- rito critico, anzi di un atteggiamento di dubbio. Dalle conversazioni avute con loro mi sembrava che lo spirito critico e il dubbio si rivolgessero sostanzialmente a due concetti: l’inculturazione e lo sviluppo. Ricordo anche che alcuni di loro chiedevano a me, in quanto antropologo, cosa esattamente fosse e come si dovesse intendere l’inculturazione, «quasi che i documenti del Con- cilio non fossero più del tutto convincenti» o del tutto chiari (Remotti 2017: 50). Mi sia consentito proseguire nella citazione: «Ri- masi colpito da questa loro esitazione e perples- sità. Mi resi poi conto che per loro era molto problematico distinguere nella cultura nativa ciò che doveva essere considerato compatibile con il messaggio evangelico e quindi mantenuto, e ciò che doveva essere scartato. Ai loro occhi, e alla loro profonda sensibilità, balzavano i drammi che - magari senza saperlo, senza preavviso - si generavano con l’inculturazione». Non diedi alcuna lezione. Mi rendevo conto che il concetto di inculturazione emerso dai docu- menti del Concilio e quello di impiego comune nelle scienze sociali non erano la stessa cosa. Soprattutto, però, mi rendevo conto che i dubbi e le perplessità di quei giovani missionari erano ri- volti anche alla seconda nozione a cui ho accen- nato: «Essi ormai vedevano anche i guasti di ogni genere (sociale, culturale, economico) che spesso si producevano in nome dello “sviluppo”». La sensazione di avere a che fare ormai con un “ Coloro che vanno in missione debbono stimare molto il patrimonio, le lingue e i costumi delle società locali.

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