Missioni Consolata - Maggio 2020
Tanti mondi, una terra © Teseum Il secondo tipo: i missionari conciliari Negli anni Settanta, la scena cominciava a essere occupata da un secondo tipo di missionari. Erano i missionari che si riferivano esplicitamente al Concilio Vaticano II (1962-1965): scomparsi i cani dai cortili delle missioni, anche le razze erano ormai divenute un concetto desueto. Al posto delle razze si parlava di culture. Almeno per quanto riguarda i missionari di que- sto secondo tipo da me incontrati, la cultura, pur ammessa, era però in gran parte soverchiata dall’economia, ossia dalla preoccupazione per i problemi materiali della comunità locale. Una parola svettava su tutte le altre: «sviluppo» ( ma- endeleo nel kiswahili parlato in quella zona). Molte attività dei missionari erano dirette ap- punto allo sviluppo, e la cultura (la cultura lo- cale, ma anche la cultura più in generale) era in gran parte sacrificata all’economia. Evidente- mente, alle spalle non c’era soltanto il Concilio Vaticano II; c’erano anche gli echi delle rivendi- cazioni che i movimenti giovanili e solidaristici avevano «portato avanti» (come si usava dire al- lora) anche in un’ottica internazionale. Per que- sto secondo tipo di missionari il Vangelo signifi- cava fare del bene, in primo luogo ai poveri, alle popolazioni del sottosviluppo. La domanda che essi si ponevano era dunque la seguente: è più importante mantenere i loro usi e costumi, la loro cultura o non piuttosto favorire lo «svi- luppo», insegnare loro la strada del «progresso»? Soldi invece di capre Vorrei portare un esempio in cui sono rimasto coinvolto. Uno dei temi su cui mi ero concentrato fin dall’inizio delle mie ricerche sul campo era il cosiddetto compenso matrimoniale ( omutahyo in kinande), secondo il quale il futuro sposo rac- coglieva dieci capre dalla sua famiglia per offrirle in maniera cadenzata e ritualmente program- mata alla famiglia della sposa: si trattava, dun- que, di un processo rituale che si svolgeva nel tempo e che impegnava in diversi modi le due famiglie, così da creare legami di «alleanza» sempre più stretti (Remotti 1993: cap. II). La rico- struzione di questo lungo e complesso processo rituale si scontrò con il fatto che - su suggeri- mento e per impulso degli stessi missionari - esso veniva ormai in gran parte sostituito dalla moneta. Ricordo di avere discusso con alcuni di questi missionari, i quali consideravano l’ omuta- hyo non solo un residuo del passato, un costume puramente tradizionale, senza più alcun vero si- gnificato culturale, ma un’istituzione cha faceva da ostacolo al progresso economico e sociale. Perché perdere tempo ed energie per raccogliere È più importante mantenere usi e costumi o non piuttosto favorire lo «sviluppo»? “ Qui sotto: un verdissimo scorcio di Masisi, nella provin cia del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo. - Continua a pagina 44 -
RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=