Missioni Consolata - Maggio 2020
camente gratuito, incentivando però un’attività di contrab- bando con il vicino Brasile». Il centro, intasato di auto, si svi- luppa attorno all’immancabile piazza dedicata a Simón Bolí- var, piccola e alberata. In giro c’è molta gente. In una città di frontiera come questa la scar- sità di beni è molto meno pre- sente che nel resto del Vene- zuela. I negozi espongono merci di tutti i tipi, anche frutta e generi alimentari. Si può pa- gare in bolivares o in reais , la valuta brasiliana, come mo- 17 maggio 2020 MC A mezzanotte del secondo giorno il gruppo fu ac- cettato al rifugio Janokoida ( reportage, ndr ) di Paca- raima, dove, tra gli altri, accolgono coloro che sono bloccati in città per fare i documenti. «La prima notte ci diedero una cena abbondante a base di pollo, riso e altro. Quando la vedemmo, pensammo: “Finalmente mangiamo!”. Ma ave- vamo lo stomaco talmente piccolo che non riu- scimmo a finire tutto». «Il giorno successivo raccogliemmo un po’ di soldi tra tutti e riuscimmo a pagare il passaggio per an- dare a Boa Vista, dove arrivammo verso mezzo- giorno». Gli indigeni cercarono quindi il centro autogestito Ka Ubanoko, dove viveva già qualche parente e amico. È qui che si sono stabiliti. In attesa di tempi migliori. M.B. - P.M. In alto a sinistra: ritratto di Leany | Qui sopra: un giovane warao lavora come barbiere nell’abrigo Janokoida, a Pacaraima. Si notino le scritte dei coloratissimi murales visibili sullo sfondo. | A sinistra: un momento di preparazione alle danze che i Warao ospiti di Janokoida hanno organizzato durante la nostra visita all’abrigo di Pacaraima. * MC A strano i cartelli dei prezzi. Quasi tutto arriva dal Brasile. «I pagamenti con la nostra moneta sono fatti in digitale. Con le carte o usando il cellulare. Pagare in contanti sarebe veramente com- plicato vista la quantità enorme di denaro che sarebbe necessa- rio portare con sé». Padre Carlos ci porta a vedere l’ospedale: da fuori la struttura pare deserta. «Non ci sono medicine - ci dice - e se abbiamo problemi cer- chiamo di farle arrivare dal Bra- sile. I medici sono pochi e lavo- rano anche in ambito privato». ESPATRIARE SENZA DOCUMENTI Al mattino seguente siamo pronti per fare il percorso in- verso. Ci accompagnano anche un paio di giovani cappuccini. Sono loro che, alcuni km fuori dalla città, ci indicano un sen- tiero in mezzo ai campi. «Ecco, di là si passa per aggirare i con- trolli di frontiera. Viene chiamata “trocha”», spiegano. È usato da chi non ha passaporto (per esempio, molti tra gli indigeni warao) e da chi svolge attività di contrabbando. che ci portavano dissero: “Ai controlli (venezue- lani, ndr ) dite che siete indigeni e andate alla co- munità indigena di San Antonio, dall’altra parte della linea. E così facemmo, ma la guardia ci disse: “Voi non siete di là”. E noi: “Siamo indigeni”. Ci spedirono in fondo alla fila. C’erano almeno 35 auto. Aspettammo quasi due ore. Passato il con- trollo venezuelano, i camionisti dissero che avremmo saltato quello brasiliano passando per la trocha (il soprannome di una scorciatoia, ndr ). Ci mettemmo su una strada sterrata fatta dagli indi- geni pemones. Incontrammo un primo gruppo di Pemones che chiedevano soldi a tutti i mezzi in transito (sul loro territorio, ndr ). Più avanti alcune donne indigene controllavano chi passava e anch’esse chiedevano soldi. Finalmente arrivammo dove c’erano i poli- ziotti brasiliani che ci fecero scendere e verifica- rono tutti i nostri bagagli. Alla fine ci dissero che potevamo passare. Eravamo in Brasile». Da Janokoida a Ka Ubanoko Entrati in Brasile i migranti dovevano fare una se- rie di documenti per essere in regola. «Eravamo - racconta ancora Leany - a Pacaraima, la città di frontiera. In giro c’era cibo. Noi avevamo fame ma non avevamo soldi. Trascorremmo due giorni a fare i documenti alla polizia federale, nei pressi della linea (nelle tensostrutture; vedere re- portage, ndr ). Furono giorni difficili, anche perché mangiavamo una volta sola: una ciotola che ci da- vano a mezzogiorno». © Paolo Moiola
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