Missioni Consolata - Marzo 2020
E la chiamano economia 66 marzo 2020 MC Prestigiacomo, ministro dell’am- biente del governo Berlusconi, con un decreto legge, spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in vi- gore del valore obiettivo di 1 ng/m 3 (nanogrammi per metro cubo) per il benzo(a)pirene. Quanto alla regione Puglia, vietò il pascolo nelle zone con- taminate ma non fece nulla per imporre all’azienda di ridurre le emissioni. Il toro per le corna venne infine preso dalla magi- stratura di Taranto che il 26 lu- glio 2012 ordinò il blocco della produzione e l’arresto di otto vertici aziendali tra cui Emilio Riva e il figlio Nicola. Ma il go- verno si mise di traverso e nel dicembre dello stesso anno emanò un decreto legge che autorizzava la prosecuzione della produzione. Così si mise in moto un braccio di ferro fra giu- dici e governo , una sorta di Kra- mer contro Kramer, dove la ma- gistratura imponeva divieti a di- fesa della salute e il governo li smontava a difesa della produ- zione. Quanto alla famiglia Riva, vista la montagna di guai giudi- ziari accumulati, optò per il basso profilo e se da un parte accettò di consegnare, a par- ziale indennizzo, una parte del tesoretto che aveva rifugiato in Svizzera (1,2 miliardi), dall’altra dichiarò fallimento. Così lo stabi- limento di Taranto passò sotto gestione commissariale con l’in- tento di proseguire la produ- zione nonostante le problemati- cità esistenti. Il tutto in attesa di trovare una realtà industriale di- mento da benzo(a)pirene, beril- lio, e molto altro. Ma ottenne solo ingiurie, isolamento e de- nunce da cui dovette difendersi in tribunale. Nel luglio 1971 la ri- vista «Taranto oggi domani» de- nunciò l’alto grado d’inquina- mento atmosferico e marino, e localizzò nel quartiere Tamburi la massima concentrazione di sostanze velenose. In quel quar- tiere si svolsero molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare, che non ne potevano più della pol- vere nera che si infilava dapper- tutto. Tanto più che, negli anni a seguire, venne deciso il raddop- pio della capacità produttiva. Scelta sciagurata non solo per la salute dei tarantini, ma anche per la stabilità finanziaria dello stabilimento, considerato che di lì a poco il mercato dell’acciaio avrebbe registrato una certa sa- turazione. Fatto sta che nel 1995 lo stato vendette lo stabili- mento alla famiglia Riva che diede il colpo di grazia alla sa- lute dei tarantini. Fra il 1997 e il 2003 molti lavoratori anziani sindacalizzati andarono in pen- sione, la fabbrica rimase senza vigilanza interna e la famiglia Riva ne approfittò per trascurare gli investimenti necessari al mi- glioramento ambientale e della sicurezza. E a dimostrazione delle sue responsabilità, in que- gli stessi anni un’altra acciaieria, quella di Duisburg in Germania, investiva pesantemente per ri- spettare la normativa europea in materia ambientale che, nel frattempo, aveva cominciato a muovere i primi passi. Venivano interamente sostituiti i forni a coke, mentre l’intera lavora- zione del carbone veniva allon- tanata dal centro abitato. Un’o- perazione che alla ThyssenK- rupp costò circa ottocento mi- lioni di euro, ma che mise in si- curezza cittadini e lavoratori. Così, mentre a Duisburg il pro- blema del benzo(a)pirene - uno dei cancerogeni più temibili - veniva sostanzialmente risolto, a Taranto continuava a rimanere al di sopra dei limiti sanciti dalla legislazione europea. Complice la politica: nel 2010 Stefania Del resto già lo studio epide- miologico commissionato dall’I- stituto nazionale di sanità e pub- blicato nel 2012, aveva accer- tato che, nei territori circostanti lo stabilimento Ilva, c’era un ec- cesso di tumori femminili del 20%; un eccesso di tumori ma- schili del 30% e, quel che è peg- gio, un aumento dell’incidenza di tumori infantili del 54% e un aumento della mortalità infantile dell’11% rispetto alla media re- gionale. Si poteva evitare? Sembrerebbe di sì a giudicare dalle buone prassi attuate da altre acciaierie. Un esempio in tal senso viene dall’acciaieria di Linz in Austria, per molti versi comparabile a quella di Taranto: entrambe con la stessa capacità produttiva, entrambe con le stesse fasi pro- duttive, entrambe a ridosso della città, entrambe gestite da privati. Quella di Taranto è stata trascinata in tribunale per disa- stro ambientale, quella di Linz è portata come esempio di com- patibilità ambientale. E, alla fine, si scopre che, nel caso specifico della produzione di acciaio, le vere minacce per la salute e per l’ambiente sono avidità e negli- genza, quest’ultima non solo da parte dei proprietari delle im- prese, ma anche di chi ricopre ruoli istituzionali. Di sicuro a Ta- ranto lo scempio si è compiuto con la complicità di molti: c’è chi ha inquinato, chi ha chiuso gli occhi, chi ha provato a nascon- dere la polvere sotto un tappeto ormai ridotto a brandelli, chi non ha deciso, chi ha scelto di non decidere, chi ha guardato solo agli interessi economici di breve termine. Per molti, troppi anni. PASSAGGI DI PROPRIETÀ La prima pietra dell’acciaieria di Taranto venne posata il 9 luglio 1960 da parte dell’Iri, cassaforte dello stato italiano, e partì subito male: per far posto allo stabili- mento si estirparono migliaia di piante di olivo. Nel 1964, prima ancora che lo stabilimento fosse completato, l’ufficiale sanitario di Taranto, il medico Alessandro Leccese, aveva messo in guar- dia contro il possibile inquina-
RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=