Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2020
laureata in turismo e ha passato parte della sua vita in città, a Tu- cupita, dove insegnava nella scuola primaria. Allo stesso tempo era molto impegnata nella pastorale indigena della chiesa cattolica e con un gruppo culturale chiamato Eco Warao. «Con mia figlia e mia nipote siamo partite a maggio e sape- vamo già dell’esistenza di Ka Ubanoko. Arrivate a Boa Vista dopo un viaggio rocambolesco con un gruppo di altri indigeni, passammo la notte alla rodovia- ria (la stazione degli autobus, dove c’è un centro di transito per migranti gestito dall’eser- cito, ndr ), senza dormire. Quando riuscimmo ad arrivare a Ka Ubanoko, ad alcuni di noi parve molto brutto. La mia im- pressione invece fu positiva». I primi tempi non sono stati fa- cili. «La mia famiglia è cono- sciuta, così c’era qualcuno che non voleva vederci a Ka Uba- noko e ci diceva di andare a Pintolandia», racconta Leany. «Poi il cacique Camilo ci ha prese nel suo gruppo, e, vista la sua autorità, le acque si sono calmate». Leany è sempre stata molto at- tiva nella promozione dei diritti e della cultura warao. Per que- sto si preoccupa subito della possibile perdita di identità, so- prattutto dei bambini migranti. «In Ka Ubanoko stiamo lavo- rando con l’infanzia missionaria. E all’inizio abbiamo avuto delle incomprensioni con i criollos perché loro sostenevano che noi facciamo un’attività che li esclude. Abbiamo spiegato che la nostra visione è differente. Ovvero non è solo insegnare a pregare, insegnare la parola di Dio, ma stimolare i bimbi affin- ché conoscano la cultura warao, formino un sentimento di appar- tenenza, costruiscano un’iden- tità». Leany ci tiene a spiegare bene la propria filosofia: «In qualsiasi luogo noi siamo, non smette- remo mai di essere Warao: è nel nostro sangue. Anche se an- dremo in un altro stato del Bra- sile, fisicamente saremo uguali. Ci adatteremo alla società di questo paese, impareremo la lingua e avremo un lavoro. Ma saremo sempre indigeni. Qui a Ka Ubanoko stiamo facendo un buon lavoro, e ci siamo resi conto che i bimbi non indigeni, dopo aver ascoltato le canzoni e visto i balli warao, iniziano a cantare pure loro. Questo è molto importante. Bimbi warao che non parlavano la lingua ma- dre, adesso iniziano a farlo. Il nostro impegno va molto più in là. Quello che ci unisce è che siamo venezuelani e siamo indi- geni. Tuttavia, se non pren- diamo in mano la situazione, la nostra gente smetterà di sentirsi indigena». Ka Ubanoko è un’esperienza importante, anche se è difficile prevedere quanto durerà. Per- mette ai migranti di non cadere nell’assistenzialismo del campo profughi, di prendere in mano la propria vita e - allo stesso tempo - sentirsi parte di un qual- cosa di organizzato, che pro- tegge e permette di essere pro- tagonisti. Per il bene comune. Marco Bello e Paolo Moiola (1.a puntata - continua) * BRASILE VENEZUELA 18 gennaio ~ febbraio 2020 MC Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» ese- guito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’U- nione europea e della Regione Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi. Fonti principali 3 H. Dieter Heinen, Los Warao , in «Los aborìgenes de Venezuela, volume III, Fundaciòn La Salle de Ciencias Naturales, Caracas 2011. 3 Cecilia Ayala Lafée-Wilbert - Werner Wilbert, La mujer warao, de recolectora deltana a recolectora urbana , Fundaciòn La Salle de Ciencias Naturales, Caracas 2008. Qui sotto: mamma e bambini warao in una piccola tenda piantata sul campo da gioco del l’ex palazzetto di Ka Ubanoko. * © Marco Bello
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