Missioni Consolata - Dicembre 2019
68 amico DICEMBRE2019 «giovane da divano», ma una giovane che vuole stare con gli altri e agire per gli altri. Sono partita con molti dubbi, mi sono chiesta più volte se fosse la cosa giusta e se fosse il mo- mento più adatto. Sono tornata con la consape- volezza che le strade di Dio sono diverse dalle mie e che camminare su quel sentiero, per quanta paura a volte possa fare, è la chiave per toccare con mano quanto Lui mi ami e quanto io a mia volta possa amare gli altri. Ho sperimentato di nuovo cosa significa la frase sentita al mio primo corso in preparazione alla missione: «La missione è accettare l’Amore che salva: è imparare a riconoscerlo, a viverlo la- sciandosi amare, e poi a restituirlo gratuita- mente, senza nulla in cambio. È un Amore che ti parla una lingua straniera, che si legge negli oc- chi grandi dei bambini: si fa capire con la delica- tezza di una mano stretta sul tuo braccio, con l’energia di un sorriso che ti spiazza, anzi, ti spezza. In missione sei in ascolto della più bella e disarmante catechesi che potresti mai vivere: quella tenuta dalla povertà, che ti costringe a scavare nelle tue periferie, nei tuoi vuoti d’a- more». Un mese in missione non ti cambia la vita, ma può cambiare il modo in cui guardi la tua vita la- sciandoti abbracciare dall’amore, riempiendo quei vuoti che solo Dio sa colmare: è ciò che siamo andati a fare, o meglio a vivere, in Tanza- nia. È facile dimenticarsene una volta tornati, quando si viene investiti dalla freneticità della vita quotidiana, ma ciò che mi sono portata a casa è il desiderio di dare tempo al Signore e di vedere cosa posso fare se mi guida Lui. Federica Curci D a quando sono tornata dal Tanzania la domanda più gettonata da parte di amici e familiari è: «Ma perché sei andata?», e, soprattutto, «cosa sei andata a fare?». Sono partita con altri 11 giovani, tutti animatori della parrocchia Maria Regina delle Missioni di Torino, e una coppia. Siamo voluti andare a co- noscere la terra di Richard Lusaluwa (ordinato baba , padre, il 22 agosto), missionario della Consolata che ci ha accompagnati nell’ultimo anno del nostro cammino in parrocchia. Un’oc- casione letteralmente piovuta dal Cielo. Reduce da una precedente esperienza missiona- ria, sapevo quanto fosse importante partire con occhi nuovi, togliere le squame occidentali dal mio sguardo per comprendere la terra tanza- niana. Una terra che diverse persone mi avevano descritto, ma che solo vivendola ho capito un po’ di più. Le impronte sulla strada polverosa, i bambini che ti corrono incontro mentre giocano con poco o niente, persone la cui gentilezza non ha confini, tramonti e paesaggi che ti fanno ri- scoprire la bellezza del creato. In Tanzania ho imparato il senso dell’accoglienza e della condivisione. «Karibuni», che in swahili si- gnifica «benvenuti», è la parola che ci ha accom- pagnati dal nostro sbarco a Dar es Salaam fino al nostro arrivo a Madibira: accolti dai giovani, fe- lici di conoscerci; accolti dai preti che ci hanno mostrato cosa significhi amare Dio e cosa si ri- esce a fare se lo si segue pienamente; accolti dai ragazzi della scuola di Madibira che ci correvano incontro appena ci vedevano, ci abbracciavano stretti durante i balletti in salone, o ci dicevano «i need it», ne ho bisogno, per ogni braccialetto che avevamo al polso; accolti dalla gente del vil- laggio che, nonostante i nostri problemi con la lingua, cercava di farci sentire a casa. Sono andata in Tanzania per non essere una Tanzania: dono da custodire In missione sei in ascolto della più bella e disarmante catechesi che potresti mai vivere: quella tenuta dalla povertà, che ti costringe a scavare nelle tue periferie, nei tuoi vuoti d’amore.
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