Missioni Consolata - Novembre 2019
MC R redazione@rivistamissioniconsolata.it mcredazioneweb@gmail.com NOVEMBRE2019 MC 7 Partiamo spediti. Appe- na fuori del villaggio del- la parrocchia, sento una voce in lontananza che grida: «Karibu, Armando (benvenuto Armando)». Il saluto è forte, ma non vedo nessuno. In queste zone e a questa altitudi- ne, senza i rumori tipici del mondo occidentale, il suono si propaga facil- mente. Proseguendo il cammino incontriamo un gruppo di donne che vanno al lavoro nei cam- pi trasportando gli at- trezzi sulla testa. Il sa- luto è d’obbligo: «Kamwene, habari, m- naenda wapi?» (buon giorno - in kihehe , hai notizie? dove vai? - in ki- swahili ). La stretta di mano tripla dà calore al- l’incontro e all’imman- cabile scambio di infor- mazioni, senza fretta. Al primo gruppo di ca- panne ci fermiamo per salutare, anche se qui non ci sono ammalati ne vecchi. Ci offrono una gallina e io cerco di ri- fiutarla perché so che questa gente mangia u- na sola volta al giorno. Suor Ponziana mi pren- de per un braccio e sot- tovoce mi sussurra che non si può rifiutare, sa- rebbe un’offesa per loro. Riprendiamo il cammino e dopo un’ora arriviamo in un villaggio con molte capanne. Sul sentiero che attraversa il villag- gio un giovane sui venti anni si muove trasci- nando il corpo con le mani. Ha le gambe rat- trappite probabilmente dalla nascita. «Weuli (buon pomeriggio - an- cora in kihehe ). Haba- ri?». «Nzuri (bene)». È la risposta caratteristi- ca della gente. Anche se la situazione non è buo- na, la risposta è sempre positiva. «Vado a trovare la non- na», dice il ragazzo. Lo accompagniamo lenta- mente alla capanna che si trova poco lontano. «Hodi? (permesso?)». «Karibu (benvenuto)», risponde una voce da dentro. Entriamo attra- verso un’apertura in un muro di fango secco. At- traverso il denso fumo di un fuocherello vedia- mo una donna molto an- ziana seduta su un ga- bellino di legno a pochi centimetri da terra. Ci da la mano dalla pelle molto sciupata e rinsec- chita e ci invita a seder- ci. La vecchia è seduta accanto ad un fuoco for- mato da tre pietre di- sposte a triangolo. Non c’è il camino e il fuoco poco vivo crea una coltre di fumo che ristagna nel piccolo ambiente ren- dendo difficile il respiro. Dopo i convenevoli, la signora ci racconta la sua storia di persona ri- masta sola, con nessun parente e la difficoltà di muoversi a causa delle gambe molto ammalate. Ormai la sua vita è ac- canto al fuoco che, a queste altitudini, è sem- pre acceso giorno e not- te. La sua esistenza è condizionata dall’aiuto dei vicini che non manca mai e dalla presenza del nipote handicappato che le tiene compagnia du- rante la giornata. Ma la cosa sorprendente è che trasmette il suo raccon- to con un sorriso sulle labbra, senza recrimi- nazioni, né lamentele, come se fosse una cosa normalissima, naturale. Io le offro delle cara- melle e la suora le dà u- na maglietta per ripa- rarsi dal freddo. Conclu- diamo la visita pregando insieme. Riprendiamo il cammino in silenzio ripensando al- la condizione di quella nonna che affronta la sua situazione difficile con serenità senza drammatizzare, con di- gnità e l’orgoglio di esi- stere. La lebbrosa Dopo un paio di colline e mezzora di cammino ar- riviamo a un piccolo in- sediamento, con cinque o sei capanne e poca at- tività, nessun movimen- to. La suora va diritta verso una capanna. Si ferma prima di entrare e girandosi verso di me di- ce: «Tu stai qui, non en- trare, aspettami». Dopo un quarto d’ora, suor Ponziana esce e mi dice: «Twende (andiamo)». La osservo mentre si pu- lisce le mani con l’erba alta bagnata di rugiada. Incuriosito, le chiedo perché non mi ha lascia- to entrare in quella ca- panna. Con la testa ab- bassata mi risponde sommessamente: «In quella capanna c’è una persona molto ammala- ta, ha la lebbra». Rimprovero suor Ponzia- na per quella pericolosa mancanza di igiene e le consiglio di munirsi di un disinfettante comune mentre le offro una bot- tiglietta di Amuchina che abitualmente mi porto nello zainetto. «Turudi (torniamo)», mi dice. Ci mettiamo sulla strada del ritorno, silen- ziosamente. Poco dopo incontriamo un gruppo di giovani donne che rientrano al villaggio. L’incontro vivacizza l’at- mosfera con i saluti e le notizie che ci scambia- mo. Io ne approfitto per familiarizzare con loro. Arriviamo alla missione abbastanza stanchi ed accaldati. Mi accorgo che la bottiglia dell’acqua della suora è ancora pie- na. «La bevo con le mie consorelle», mi dice suor Ponziana. Questa cosa mi fa ricordare l’impor- tanza dell’acqua per questa gente. Nella par- rocchia non esiste anco- ra un impianto di acqua potabile e utilizziamo l’acqua piovana e quella bollita per le nostre esi- genze. Se è così in mis- sione, nel villaggio è molto peggio. «Tutaonana kesko (ci ve- diamo domani)», mi sa- luta la suora. A domani. Armando Favaro 23/09/2019 Balangero (To) © Foto Armando Favaro © Foto Armando Favaro
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