Missioni Consolata - Maggio 2019
«Io penso che dipenda moltissimo dalla loro istruzione ed educa- zione, da dove vengono, dalle loro famiglie, per molti all’inizio sem- brava una cosa buona, nessuno quando si sono arruolati aveva parlato di sterminare gli Yazidi, uc- cidere i propri amici perché di reli- gione diversa. La propaganda era più religiosa e mirata contro l’inva- sione occidentale, contro le multi- nazionali che volevano usare la no- stra terra, contro la corruzione. Ogni giorno però la situazione di- ventava più grave fino ad arrivare a quello che sappiamo oggi. Ci hanno sterminati», mi dice com- muovendosi. «Io conoscevo alcune delle per- sone che hanno attaccato Sinjar. Molto probabilmente oggi sono morte. Io non ce l’ho con loro. So che sono stati manipolati e che gli hanno riempito la testa di scioc- chezze. Però nessuno ci ha difeso, ora con la mia famiglia viviamo qui, senza lavoro, senza futuro. Que- st’anno non ci hanno nemmeno consegnato il gasolio per il riscal- damento e da giorni non fa altro che piovere. Io vorrei tornare un giorno a Sinjar, ma oggi Sinjar non esiste più». Mirza mi racconta che nel campo ci sono anche diverse ragazze che sono state rapite da Daesh e poi segregate a Mosul per essere «schiave sessuali»: «Conosco le fa- miglie di tutti qui, alcune di queste ragazze, da allora, da quando sono riuscite a scappare, non parlano più, non riesco a immaginare quanto possa essere doloroso solo ricordare quello che è successo». Bassem, cristiano di Mosul Spostandomi a Mosul mi ritrovo in una città in rovina. In questi vicoli, oggi devastati dai bombardamenti americani, sono morti insieme agli uomini dello Stato islamico anche migliaia di civili. In alcune di queste case, mi dice la gente per strada, l’Isis teneva segregate sia ragazze che ragazzi per abusare sessual- mente di loro. Altri luoghi invece, come chiese e scuole, venivano usati come carceri o stanze per le esecuzioni. Davanti alla chiesa armena di Etch- miadzin, sventrata dalle bombe americane, incontro Bassem. Vive in uno stanzino qui accanto, poca roba ammassata sotto un edificio pericolante, lo incontro mentre beve whisky da una botti- glia di plastica con due suoi amici. Molti non musulmani comprano a poco prezzo distillati fatti in casa: per tanti di loro, soprattutto dopo la distruzione di Mosul, è l’unica via di fuga dalla realtà. Bassem, perché hai deciso di vi- vere in questo centro storico ormai distrutto?, gli chiedo. «Ho sempre vissuto qui. Non me ne sono an- dato quando è arrivato Daesh, non me ne sono andato quando gli americani bombardavano e non me ne vado adesso. Poi li vedi quelli?». Mi dice indicando alcuni ragazzi con un vecchio veicolo a tre ruote: «Girano di edificio in edificio per rubare tutto quello che trovano, soprattutto metalli come il rame. In questa chiesa ci sono ancora candelabri, lapidi, targhe di ottone. Io sono qui per proteggerla». Bassem toglie il lucchetto della ca- tena che chiude la porta della chiesa. Entrando, tra calcinacci e vetri rotti, solleva il maglione per IRAQ
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