Missioni Consolata - Gennaio / Febbraio 2019

GENNAIO-FEBBRAIO2019 MC 45 D «Come le hai imparate tu, le imparerò anch’io», risposi senza scompormi. Poi, notando sopra la scrivania del padre un ca- lice per la Messa, dissi a me stesso: «Anch’io un giorno alzerò un calice come questo». Però non volevo diventare «solo prete», bensì «prete e missionario della Consolata», perché ero attratto dalla loro vita, padri, fratelli e suore. Pro- grammavano e lavoravano insieme, mangiavano, giocavano e ridevano insieme. Le «discussioni» non mancavano, ed erano pure aspre. Ma si ritro- vava l’accordo e la pace. Ero già avanti negli studi del seminario, allorché rivelai al vescovo Attilio Beltramino la mia voca- zione missionaria. «Prima diventa prete dioce- sano, poi si vedrà!», rispose secco. Missionario in Congo Nel 1970 venni ordinato sacerdote e quasi subito diventai missionario della Consolata, il primo del Tanzania. Per sei anni mi occupai dei giovani di Iringa in parrocchia e nella Secondary School. Poi fui mandato a Roma a studiare Spiritualità. Ritor- nato in Tanzania, fui professore e «padre spiri- tuale» nel seminario teologico maggiore di Pera- miho. Dovevo starci un anno, ma la permanenza si protrasse a cinque anni. Partii per il Congo (Rdc) negli anni ‘80, nella dio- cesi si Wamba, dove si parla swahili. Un swahili assai diverso da quello del Tanzania. Conclu- sione: non ci capivamo. Si parla pure francese. Ma il mio francese rasso- migliava a un vecchio camion in salita, che ar- ranca, sbuffa e sembra implorare: «Vieni a darmi una spinta! O, meglio, spegni il motore». Quando padre Giuseppe Inverardi 13 , superiore generale, venne in visita al Congo, manifestai il mio disagio. Al che lui rispose: «Come missiona- rio, non sei in Congo per parlare le lingue, ma per testimoniare il Vangelo con la tua vita». Un mes- saggio che mi porto nel cuore tutt’oggi. In Congo dovevo restare tre anni, ma ne trascorsi dieci. Le difficoltà erano ingenti, politicamente e socialmente. Tuttavia la vita comunitaria era la- stessa che mi attirò, tempo addietro, a entrare nell’Istituto della Consolata. Ora vescovo Ritornato in Tanzania, nel 1997 fui consacrato ve- scovo di Mbeya. Ma non ho mai scordato di «es- sere della Consolata». Raggiunti i 75 anni di età, nel 2016 presentai le canoniche dimissioni. Ma sono ancora in attività. Ho scritto questa testimonianza per il Centenario dei missionari della Consolata in Tanzania. In conclusione, sottolineo l’«eredità» lasciataci dal fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che di- ceva: «Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme, prepararvi assieme per poi lavorare assieme per tutta la vita» 14 . I giovani, se avvertiranno questo spirito di fami- glia, busseranno sempre alla nostra porta per stare con noi missionari. Se entri in una congregazione che non è famiglia, ne uscirai prestissimo. I voti di povertà, castità e obbedienza si tramuteranno in un giogo oppri- mente, in un carico insopportabile. Al contrario, in un Istituto-famiglia, il giogo è ve- ramente dolce e il carico leggero (cfr. Matteo 11, 30). E la gioia regnerà sovrana in quella casa. Mons. Evaristo Chengula, missionario della Consolata, vescovo di Mbeya (Tanzania) Nota: mons. Evaristo Chengula è andato alla Casa del Padre lo scorso 21 novembre 2018. Lo apprendiamo, non senza emozione, mentre stiamo lavorando a que- sto dossier. A sinistra in basso : monsignor Evaristo Chengula, in visita alla casa dei missionari anziani ad Alpignano (To). Qui : Manda, prove dei canti nella nuova parrocchia. D 100 ANNI IN TANZANIA © Jaime Patias AfMC

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=