Missioni Consolata - Dicembre 2018

ITALIA nemmeno acqua. Il tetto era bu- cato e pioveva dentro. Un po’ per volta, con tanto lavoro manuale, sono riuscito a risistemare tutto. Sono stato spesso aiutato da amici e volontari. Molte volte ve- nivo da solo». Sarà per il tau presente nel logo dell’Eremo, sarà per i quadri e le icone francescane appesi ai muri, ma questo racconto di Juri ci fa pensare a san Francesco che ri- struttura la piccola chiesa di san Damiano. Le celle Quando entriamo nell’Eremo ci sembra di entrare in una piccolo palazzo di edilizia popolare: oltre il portoncino ci si trova di fronte a una scala che porta al primo piano. Del piano terreno vediamo solo un breve corridoio accanto alla scala che porta a una stanza dove Juri ci dice che stavano gli agenti. Ora fa da magazzino. L’Eremo vero e proprio si trova al piano superiore: cinque celle che si affacciano su uno stretto corri- doio. Tutto qui. Due celle usate come uffici: uno da Juri, uno da Matteo, l’amico e collaboratore con il quale ha fondato «Essere Umani Onlus», l’ente attraverso il quale lavorano nelle scuole, nelle carceri e ospedali. Una cella è stata trasformata in cappella, una in sala incontri e l’ul- tima in uno spazio da usare per scopi vari. Sembrerebbe un posto come un altro se non fosse per le sbarre che chiudono (o aprono) ciascuno dei cinque ambienti. Perché un eremo in città L’Eremo del silenzio è un luogo appartato ma aperto, difficile da trovare, ma accogliente: «Alla gente piace perché non è bello, perché qui senti più il calore umano che non il calore della struttura», dice Juri Nervo. Tutti i giovedì dalle 19 alle 20,30 un gruppo di circa 20 persone si trova per pregare, riflettere, con- dividere. Una volta al mese la preghiera prende la forma di un’adorazione silenziosa. Anima degli incontri è lo stesso Juri ac- compagnato dal francescano pa- dre Zeno. Altra figura importante fino a qualche tempo fa è stata suor Sil- via, domenicana di Betania la cui congregazione fu fondata da un sacerdote francese di metà Otto- cento dopo aver predicato gli esercizi spirituali in un carcere ad alcune detenute. È stata lei a in- trodurre all’Eremo il giovedì di adorazione silenziosa. Oltre alle persone che parteci- pano agli incontri comuni, diverse altre arrivano all’Eremo in orari e giorni diversi per fermarsi, en- trare nella cella della preghiera e lì confrontarsi, cia- scuna, con la pro- pria cella, il proprio carcere per- sonale di fronte a Dio. «Le celle, che prima erano di se- gregazione obbligatoria, diven- tano celle di segregazione volon- taria. Qui sta la follia», dice con risolutezza Juri. «Esci da casa, vieni qui, ti chiudi in un ex carcere perché vuoi trovare la libertà. Chi ti vede pensa che sei matto. Op- pure si domanda se c’è una ra- gione che ancora non vede. Le suore di clausura fanno la stessa cosa. Nel carcere posso trovare la libertà? Secondo me sì, in tutte le carceri. Ad esempio, i genitori con un figlio disabile che vivono in modo sereno quello che ai no- stri occhi è un carcere; oppure chi è malato: ad esempio Chiara Cor- bella (giovane donna malata di tumore che ha rifiutato le cure per portare a termine la gravi- danza e morta un anno dopo il parto, ndr ), in quello che noi ve- diamo come il suo carcere, ha trovato la libertà. Ci sono tante carceri che possono essere luoghi di libertà. Certo è che uno deve fare i conti con se stesso: le pro- prie ferite, lo sbagliare in conti- nuazione e rialzarsi. Senza, ovvia- mente, arrivare a dire che il car- cere, o la malattia, abbiano un senso». E chiosa: «Sapere che io ho un carcere, abitarlo, è già una cosa diversa dal dire “io non ho un carcere e non so dov’è”. No. L’invito è a iniziare a en- trarci, a farci i conti. Sei già molto più libero».

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