Missioni Consolata - Novembre 2018
NOVEMBRE2018 MC 27 MC R perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Vi è, invece, la morte causata da carestia e siccità, quando Dio chiude le cateratte col chiavistello. Solo alla luce di questa concezione si capisce il Targum neòfiti (e an- che il Targum frammentario ) che commenta Gen 30,22 che dice: «Poi Dio si ricordò anche di Ra- chele, la esaudì e aprì il suo ventre». Così il targu- mista, ancora al tempo di Gesù, commentava que- sto versetto nella sinagoga: Quattro chiavi sono nelle mani di Yhwh, signore dei se- coli. Esse non sono affidate nemmeno a un angelo o a un serafino: la chiave della pioggia, la chiave del nutri- mento, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità . La chiave della pioggia perché è detto: Yhwh aprirà per voi il buon tesoro dei cieli (Dt 28,12). La chiave del nu- trimento perché è detto: Tu apri la tua mano e sazi ogni vivente (Sal 145,16). La chiave dei sepolcri , perché è detto: Ecco, aprirò i vostri sepolcri e vi farò uscire . La chiave della sterilità , perché è detto: Yhwh si ricordò di Rachele nella sua misericordiosa bontà e Yhwh ascoltò la voce della preghiera di Rachele e decise per la sua parola di darle dei figli . La tradizione delle quattro chiavi è presente in tutto il vangelo, che, pertanto, non può essere compreso se non alla luce non solo dell’AT, ma an- che della tradizione giudaica: • La chiave dell’acqua: «Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39). • La chiave del nutrimento: «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51). • La chiave dei sepolcri: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). • La chiave della sterilità: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; cfr. Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20). Nota esegetica: Il termine «chiave» in ebraico si dice «maptèach» il cui acròstico (o natàricon ) dà il seguente risultato: MA = MA ţàr = Pioggia P = P arnàsa = Nutrimento TEA = Te hiàt h A metìm = Resurrezione dai morti CH = CH ayyìm = Viventi Le quattro chiavi che Yhwh non affida nemmeno a un angelo, sono nelle mani di Gesù che quindi è fi- duciario di Yhwh che rende visibile e con la stessa potenza: in questo modo il vangelo di Marco in- tende affermare la sua divinità. I primi cristiani, in- fatti, provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti ebraici di lingua greca si fos- sero mantenute non poche tradizioni del giudai- smo. Entriamo, ora, nel vivo del Vangelo (Mc 4,35- 41) dando una traduzione più attenta, letterale, an- che se meno estetica (cfr. Juan Mateos-Fernando Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico , vol. 1, Cittadella Editrice, As- sisi 1997, 398-515). Mc 4,35: «In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: “Passiamo all’altra riva”». La giornata è finita e invece di andarsene a ripo- sare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi disce- poli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione, tanto che ai di- scepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano inten- dere. Senza parabole non parlava loro ma, in pri- vato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,33-34). Ciò, forse, può voler dire che per capire bisogna sapere già prima cosa si vuole, perché non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. Viene sempre la sera come simbolo della morte e impone da sé il bilancio della giornata che anticipa quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’im- pegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo (cfr. Lc 17,10), bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non è cominciato né finisce con noi; c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» ( Purg. III,78), è ancora più vero che per il testimone c’è sempre un’altra riva che aspetta e solo l’orante ha barca e remi pronti per partire e ar- rivare. La riva è sempre dall’altra parte se siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la man- canza di forze o forse di coraggio: in una parola, su-
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