Missioni Consolata - Luglio 2018

MC R LUGLIO2018 MC 71 anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo effi- cace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfetta- mente alla vita dei nomadi. La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave. Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di es- sere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, pic- chiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musul- mano locale mi difende. Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi. Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi. Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci? Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merka e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evol- vere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente. Un bel progetto non c’è che dire. Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni ge- nitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, rie- sco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità. Da dove ricavi la forza per andare avanti? Se devo proprio essere sincera la radice che so- stiene tutta la mia attività sta nella preghiera con- templativa, nella meditazione del Vangelo e nell’a- dorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cer- baiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati so- mali mi spinge sempre a tornare da loro. Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani. Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho im- parato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione. Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vec- chio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’in- fedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cri- stiana residente in quel luogo. Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth. L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità fe- rita; più gli esseri umani sono feriti, più sono mal- trattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, as- senza di paura, audacia. Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano. Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cri- stiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, © AfMC / Giovanni Gasparini 1971

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