Missioni Consolata - Luglio 2018

LUGLIO2018 MC 45 D Changes DI D OUNYA M AHBOUB [M AROCCO ] sei mesi; intanto mi misi in contatto con mio zio, già in Italia da alcuni anni. Gli raccontai di tutte le pressioni che subivo da mio padre e di tutta la vo- glia che avevo di scappare. Mio zio, dopo diversi mesi e vari tentativi, riuscì a trovare una famiglia benestante e, dopo la notizia di mio zio, tutto si trasformò in luce ai miei occhi e nessuno poté più fermarmi. Durante una notte così calda che le candele accese nella casa si scioglie- vano come burro al sole, scappai, senza lasciare al- cuna traccia di movimenti rumorosi che avrebbero potuto infastidire il sonno di mio padre. Ero dispo- sta ad assumermi la responsabilità di un lavoro, per ottenere un permesso di soggiorno. In quel pe- riodo di tempo non avevo mai perso la speranza, sulla mia vicina partenza. Quando poi arrivò, du- rante il volo, il cuore mi batteva così forte e lo sto- maco faceva così male fino a nausearmi, i miei pen- sieri si perdevano unendosi alla scia dell’aereo, senza mai disperdersi, però. Mi calmavo sapendo che stava per incominciare una nuova vita. M io padre, uomo ignorante e violento, fi- sicamente corpulento, massiccio, duro con se stesso e il prossimo, vedeva in me qualcosa di insolito e di diverso nei miei atteggiamenti. Ogni volta che mi vedeva, di- ceva: «Dounya, non basta pregare cinque volte al giorno, il nostro Dio ci osserva, più devoti siamo e migliore sarà la nostra esistenza!». Avevo diciotto anni, aiutavo mia madre in casa e guardavo le mie tre sorelle più piccole. Mio padre, fervente religioso, parlava sempre della guerra di Dio verso gli infedeli, diceva che noi credenti era- vamo il suo mezzo divino per purificare la nostra religione ed era giusto punire con violenza anche quelli contrari alla guerra santa. Non accettavo questi discorsi ma ero obbligata a non risponder- gli, a non fare nulla, immobile al termine delle sue frasi, con il volto impassibile deglutivo quelle pa- role, perché se avessi osato controbattere e dar vita a una discussione, mi avrebbe picchiata e poi avrebbe picchiato anche mia madre che non c’en- trava nulla. La mia schiena era pur sempre dritta e i miei pensieri rimanevano conformi al mio es- sere, a quella che sono: atea. Vivevo fingendo, un’attrice di un film che non con- siglierei a nessuno, schiava di una religione che non mi appartiene. Pensavo: per quanto ancora? Mi succedeva spesso di perdermi nel vortice assi- duo di una speranza ignota. Sentivo freddo quando pensavo alla resa della mia anima mor- tale, i brividi mi affannavano il respiro, mi alzavo e allo specchio della camera riprendevo possesso della ragione, guardandomi il volto, pensavo certa: «Sono io, sempre io, la ragazza che trova ragione nel sognare un mondo migliore». U n mattino, nella mia camera, sotto le co- perte, stavo aspettando che la luce en- trasse dalla finestra perché le riflessioni della notte mi avevano fatto capire che non c’era più tempo da perdere. Mi alzai dal letto e appena mio padre uscì di casa, presi mia madre da parte e le dissi: «Basta mamma! Così non voglio più vi- vere, preferisco la morte a questa vita». Mia madre, con le lacrime agli occhi, abbraccian- domi disse: « Hal targhabi fi lhoroub!? Aina? ». «In Italia, mamma». Sapevo benissimo che ottenere un visto per l’Ita- lia non era per niente semplice e le azioni che do- vevo svolgere in segreto richiedevano molto tempo e tanta speranza. Dopo alcuni giorni, mi di- ressi all’ambasciata Italiana a Rabat: con l’iscri- zione avrei potuto ottenere un visto lavorativo di © Claudia Carammanti / Marrak - Marocco

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