Missioni Consolata - Luglio 2018
44 MC LUGLIO2018 D Di quella sera ricordo gli odori. Ricordo l’odore di sudore che riempì la stanza quando fecero irru- zione mentre stavo dormendo. L’odore di bruciato che entrava dalla finestra, che si mescolava all’o- dore della mia paura. Erano gli stessi delle la- miere, i due soldati e il civile. Sentivo ancora sulle labbra l’aroma dell’erba e della terra. Quando se ne andarono, gli odori sparirono con loro. Non li riesco più a sentire, nemmeno dopo tutto questo tempo. S apevo di aspettarti. Ne ero consapevole già da quella stessa notte, mentre la vicina, che aveva sentito le grida, mi lavava nella vasca da bagno piena di acqua e sale. Mi sono presa a pugni la pancia per la disperazione. Ma non te ne sei andata, per fortuna, non te ne sei andata. La notte successiva siamo partiti per andare da mia sorella. Abitava fuori città, al confine con i bo- schi. In cuor mio speravo avesse ancora una gal- lina o due, non ne potevo più di soffrire la fame. Abbiamo deciso di muoverci a piedi, per nascon- derci nei campi e camminare lontano dalle strade. Saša è morto proprio lì, con una gamba prigio- niera in una trappola per lupi. Non avevo abba- stanza forza per trascinarlo. Sono rimasta con lui per tre giorni finché non se n’è andato. Da mia sorella non sono mai arrivata. Ho cammi- nato finché ho potuto, nella direzione opposta ri- spetto ai rumori, alle luci e alle voci che sentivo. Ad un certo punto mi sono trovata davanti a una vecchia casa di boscaioli. Dentro, si erano nasco- ste alcune donne e un ragazzo giovanissimo, serbo come mio marito. Un disertore, uno che ad am- mazzare metà della sua famiglia si era rifiutato. Mi accolsero senza dire niente. Entrai in quella casa come un fantasma e loro entrarono nella mia vita nello stesso modo. Tra quelle donne una era impazzita. Ogni tanto si metteva a gridare e sbavava, presa dai tremori. Il ragazzo le tappava la bocca perché avevamo paura di farci sorprendere persino dal sole al mat- tino. Mangiavamo le radici, il mais e le lepri cac- ciate con i lacci. Eravamo in tre con le pance gon- fie. Una aveva solo quattordici anni. Perse il bam- bino al secondo mese, poco dopo il mio arrivo. L’altra, di trenta, lo partorì e lo abbandonò in mezzo al campo. Tu, invece, sei arrivata d’inverno. Dovevano es- serci venti gradi sotto zero. La neve era alta un metro e rendeva tutto più sopportabile, nascon- deva le cose. Sei venuta di notte e ti ho maledetto. Tremavo dal freddo e dalla fame. Le donne più forti mi hanno portato vicino alla caldaia a legna. Hanno detto che così, forse, non sarei morta e non saresti morta neanche tu. Ricordo il sudiciume, i ratti che correvano lungo i muri e avevo paura che cominciassero a mordermi e non riuscissi a difen- dermi. Sono rimasta sola per molto tempo, poi la ragazzina è venuta con il serbo. Mi hanno messo una coperta e hanno fatto pressione sul mio sto- maco per aiutarti a uscire. Sei venuta in fretta. Ho sperato che fossi nata morta, non avrei avuto il coraggio di lasciarti su un cumulo di neve. Invece hai cominciato a piangere e io con te. Ed è stato in quel momento, credo, nella spinta istintiva che ne è seguita, nelle braccia protese in avanti, nelle mani aperte, che è cambiato tutto. E come ti ho avuta, ti ho stretta, nascosta dentro il seno, sotto la coperta, vicino alla caldaia. Ti alitavo in fronte per non farti congelare e ti baciavo come se fossi un miracolo. Ti ringraziavo di essere venuta da me. Così, ora, in questo ospedale, dopo vent’anni, sento ancora il bisogno di chiederti perdono. Per ciò che è rimasto del rancore, per la storia che non ti ho mai raccontato, per le mie paure che a volte credo di vedere sul tuo viso. S to cercando di tornare da te, mi sono persa nei corridoi del padiglione Ovest. Chiedo in- dicazioni a una signora anziana che sembra un vigile e conosce tutto di questo posto. Mentre corro nella giusta direzione, sento che mi chiami. Quando entro nella stanza, l’infermiera sta solle- vando Eleonora e dietro ci sei tu, i capelli rossi e sudati appiccicati alla fronte. La prendi, la baci, la stringi e ringrazi Dio e me. Me. Hai Eleonora negli occhi mentre mi avvicino a voi e mi rendo conto che il nostro passato, tu, lo hai sem- pre conosciuto. Solo ora capisco, dopo vent’anni, che il perdono me lo avevi già dato quel giorno, in quella cantina, in quella Croazia, mentre ti alitavo sul viso per non farti congelare. Jacqueline Nieder N asce a Parma nel 1991 da padre argentino, originario di Buenos Aires, e madre mantovana. Frequenta un liceo scientifico sperimentale con indirizzo linguistico, apprendendo l’inglese e il francese; si laurea in Lettere Moderne all’Università di Bologna e attualmente vive a Torino, dove studia Storytelling alla Scuola Holden. Ama leggere e narrare storie. Il suo racconto Il cappello del Signor E è pubblicato sulla rivista per bambini dei «Magazzi- niOz» e riceve menzioni d’onore in concorsi di poesia. Ama la fotografia e tiene una fitta corrispondenza con la nonna che definisce sua amica di penna. Il suo racconto, Eleonora , vince il Premio Sezione Speciale Donne Italiane della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
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