Missioni Consolata - Luglio 2018

LUGLIO2018 MC 43 D Eleonora DI J ACQUELINE N IEDER [I TALIA ] S ei sdraiata al caldo, sotto le lenzuola pulite. Il ginecologo ti ha controllato un’altra volta ma vorrei che lo facesse di nuovo, per es- sere certa che non ti accadrà nulla. Mi alzo e cerco l’infermiera. Mentre mi allontano, ti la- menti. Non sono sicura se è perché me ne sto an- dando o perché finalmente ti ho lasciata sola. Quando torniamo, l’infermiera mi assicura che manca poco, che ogni cosa sta seguendo il suo corso naturale. Me lo ripeto di continuo, ma la luce al neon dei corridoi elude il passare del tempo, lo deforma. È facile confondere ciò che è stato con ciò che sta per accadere. Siamo in Italia, dopo- tutto, e sono passati vent’anni, dovrei smetterla di avere paura. Non si sentono i colpi di carro armato prima dell’alba o i passi dei soldati che fanno irru- zione nell’ospedale e uccidono chi, in fondo, è già morto. Mi dico che sei al sicuro mentre confondo i suoni delle macchine e i lamenti delle altre pa- zienti con quelli delle sirene. Eleonora. Le hai dato un nome di questa terra ma tua figlia sarà figlia di questa terra? E noi di cosa siamo figlie? Fuori è già buio. La luce sopra al letto si riflette sulla tua pelle bianca a tal punto che sembra ema- nata da te e ti trasfigura. Le rughe di dolore che hai sul viso, nello sforzo di spingere, somigliano a quelle di una maschera crudele. All’improvviso, ti sento fredda e mi fai paura. Non riesco a guar- darti. Mi stringi la mano fino a farmi male e ho bi- sogno di andar via. Quando la contrazione ti lascia riprendere fiato, mi libero ed esco dalla stanza, con il pretesto di cercare ancora l’infermiera. N on volevo guardarti nemmeno la prima volta, non te l’ho detto mai. Sei nata poco dopo l’inizio della guerra, nel ‘93. In tutti questi anni non ti ho mai raccontato di Osijek e del nostro passato. In fondo, non ti è mai interes- sato, forse perché sapevi che era da lì che veniva il mio rancore. Ti dò un’ultima occhiata. Hai cappelli rossi così belli, le pareti azzurre ricordano un cielo, ma la tua espressione mi spinge ad allontanarmi. È la stessa di quella volta al parco, quando avevi sei anni. Facevi piovere delle piccole zolle di terra su un formicaio con la medesima leggerezza con cui gettavano le bombe su Osijek. Ti divertiva veder impazzire quelle povere bestiole, e ti sgridavo e avevo paura di te. Sentivo tornare un rancore lontano. Osijek era un enorme formicaio, i muri segnati dai colpi di mor- taio. La strada principale aveva ceduto sotto il peso dei cingolati. Vivevo con mio marito, Saša, in una piccola villetta ai limiti della città, vicino ai campi di mais. L’abbiamo lasciata quando è scop- piata la guerra e sono cominciate le retate. Ogni settimana cambiavamo posto. Cercavamo le abi- tazioni già perquisite o abbandonate. Molti serbi erano scappati, lasciando la città. Noi forzavamo le porte e dormivamo nei loro letti, senza accen- dere le luci quando scendeva la notte. Avevamo imparato a trovarci nel buio e a restare in silenzio per giorni interi. Qualche volta, nel bel mezzo della notte, le stanze venivano inondate da una luce calda come quella del sole, ma ogni volta era soltanto il fuoco croato appiccato alle case serbe. Verso la metà di giugno, mentre Saša era andato a cercare da mangiare, scesi in strada e vidi dei ra- gazzi attorno a un furgoncino rovesciato. Con le lamiere che avevano recuperato, stavano co- struendo un’enorme croce sul ciglio della strada. Due di loro erano soldati, con delle barbe lunghe e incolte. L’altro indossava un cappello di lana e aveva un fucile legato alla schiena. Nessuno di loro portava la fascia bianca al braccio, ciò voleva dire che non erano croati. Non so bene perché, ma cominciai a pregare. Quando se ne andarono, at- traversai la strada e m’inginocchiai vicino alla croce. Cercavo l’erba medica per poterla man- giare. Ne presi un bel fascio anche per Saša e ri- entrai a casa. © Marco Bello / Mostar

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