Missioni Consolata - Luglio 2018
LUGLIO2018 MC 39 D perficialità abitudinaria non insistette e non la ri- chiamò. Mezz’ora dopo però ritornò, forse spinta da un presentimento, chiamò di nuovo Ele ed an- cora una volta ella non rispose: quel silenzio co- minciò a diventare sospetto, quasi arrogante, al punto da indurre la guardia ad aprire con nervosi- smo la cella ed entrare per scuotere la ragazza ed obbligarla a rispondere alla chiamata. Fu in quel momento che A. sentì un urlo di terrore provenire dalla cella di Ele e vide la divisa blu dalle unghie laccate cercare con tutte le forze di sollevare Ele da terra e staccare quel filo di nylon che le serrava la gola. Per fare ciò la guardia car- ceraria si era rotta tutte le unghie, quasi tutte le unghie, ma tutto risultò inutile e vano. E ra il periodo peggiore del «sovraffollamento carcerario» e quella guardia era l’unica sul piano: da sola non ce l’avrebbe mai fatta... e fu costretta ad aprire la cella di A. e a chiederle aiuto per sostenere quel corpo, che tra la vita e la morte pesava il doppio... Di fronte alla morte, non c’è colore, non c’è divisa che tenga e la divisa blu notte tremava perché non riusciva a staccare Ele da quel letto, alle sbarre del quale la ragazza di co- lore si era appesa e si stava lentamente lasciando morire. «Un paio di forbici». Urlò la guardia. «Dammi un paio di forbici, presto!». «Non abbiamo forbici», rispose A., sgomenta. «Un coltello, allora. Per l’amor di Dio, dammi qual- cosa per tagliare quel filo!», continuava ad urlare disperatamente la divisa blu notte... Ma in prigione non ci sono coltelli, non c’è nulla per tagliare... Ci si può far male e comunque certi aggeggi possono servire come strumenti di offesa. Con la forza e il coraggio della disperazione A. e la guardia riuscirono a rompere il filo di nylon e ad adagiare Ele nel corridoio. Adesso era veramente diventata nera, ma un nero che non aveva nulla a che vedere con il co- lore della sua pelle viva e gio- vane che aveva catturato l’at- tenzione di A. Tutto il corpo di Ele, A. e la guardia se ne resero immediatamente conto mentre la stavano li- berando dai vestiti, stava assumendo il colore di chi sta morendo per asfissia: solo la bava bianca- stra che le usciva dalla bocca segnava un netto ed orribile contrasto con tutto quel nero di morte. A. si chiuse in cella da sola; ormai erano arrivati i paramedici con il defibrillatore, ma dopo alcuni tentativi, alle 19.45 l’apparecchiatura con la gelida frase “no more signal” aveva decretato che Ele nella cella 16 non sarebbe più tornata. A modo suo Ele era tornata libera. A. non riuscì a trattenere le lacrime e pianse, pianse come non aveva mai fatto prima di allora... eppure neppure la conosceva... non sapeva nem- meno il suo nome... e non capiva perché… ma pianse e pianse ancora... Piangeva per quel sorriso di un attimo che tutta- via l’aveva colpita per sempre. A. pensava ad Ele come a una farfalla: per lei in- fatti era nata, vissuta e morta nello stesso giorno, così colorata e così fragile. Nessuno forse l’avrebbe cercata, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza... nessuno avrebbe saputo dove Ele era volata (se arrivi nel giardino del car- cere speri che chi ti conosce in fondo non lo scopra mai), ma A. sapeva cosa era stata per lei e sapeva che non avrebbe mai più potuto dimenticarla. Il giorno dopo, sulla stampa, quasi in ultima pa- gina, in mezzo a qualche strana pubblicità, c’era un trafiletto di quattro righe che diceva «prosti- tuta nigeriana si suicida in carcere». Ancora una volta nessuno aveva pensato che fosse importante darle un’identità... c’era solo l’età, 32 anni, ed A. pensò che a lei era sembrata più giovane, molto più giovane. Il giorno dopo A. scrisse sulla porta della tragica cella, rigorosamente messa sotto sequestro, que- sto messaggio: «Cara Ele spero tu sia tornata vento tra gli alberi della tua Africa. Corri, vola, libera e felice al di là del tempo e dei luoghi. Ogni volta che sentirò sulle guance un vento caldo penserò alla carezza del tuo sorriso... Ti ho chiamato Ele perché in nigeriano Ele vuol dire gazzella». Alessandra Rosa N asce a Torino nel 1966. Si diploma al Liceo classico Massimo D’Azeglio e si laurea alla Scuola universitaria di Scienze motorie. Lavora per un periodo presso il mini- stero dell’Interno, studia Scienze infermieristiche e insegna educazione fisica presso la propria società sportiva, della quale è anche presidente. Divorziata e mamma di tre ra- gazze, è stata in regime di arresti domiciliari fino al gennaio 2017. Attraverso la scrittura, scoperta durante il periodo di restrizione carceraria, riesce a visualizzare il suo dolore, metabolizzarlo e non averne più paura. Scoprire la sensibilità letteraria le permette di vincere ogni forma di pregiudizio. Il suo racconto La storia di Ele ha vinto il Premio Speciale Giuria Popolare della XI edi- zione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
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