Missioni Consolata - Luglio 2018

38 MC LUGLIO2018 D A sapeva che Ele stava per affrontare la parte più forte del dolore, quella più «invasiva» dell’entrata in carcere; infatti, nonostante la gentilezza istintiva con la quale una donna tocca un’altra donna, quella divisa blu notte l’avrebbe spogliata di tutto, le avrebbe fatto aprire le gambe e con un colpo di tosse le avrebbe chiesto di but- tare fuori l’ultima parte di Africa che ancora te- neva nascosta dentro di sé; solo chi ci è passato sa cosa si prova a spogliarsi quando non ti vuoi spo- gliare, quando non è ora di farlo, e cosa si prova a rimanere nude di fronte a qualcuno che non sei stato tu a scegliere, senza neppure ricevere un qualsiasi compenso come prezzo della tua vergo- gna, del tuo avvilimento! «Povera Ele!» pensò A. Il caso volle che Ele finisse proprio di fronte alla cella di A., portava sulle braccia un lenzuolo, una coperta, lo shampoo, lo spazzolino, il dentifricio... ma era la paura a pesarle maggiormente e a farle piegare le braccia, come se stesse portando un peso spropositato per le sue forze. La chiusero nella cella n. 16 e alla chiusura della porta A. vide Ele trasalire... e chi è stato in car- cere sa bene perché si sobbalza al rumore delle chiavi che chiudono la cella dietro di te: è un ru- more sinistro che non si dimentica più, mai più. Ele ebbe solo un momento per guardare negli oc- chi A... poi scoppiò in un pianto silenzioso e nella sezione smisero tutti di parlare, smisero di fare qualsiasi cosa per ascoltare e rispettare quel pianto. In prigione con le lacrime ti puoi fare la doccia ma nessuno si permette di prenderti in giro quando piangi, nessuno osa dire di smettere, perché si impara a rispettare il dolore degli altri, a volte più del proprio. Un’ora dopo, A. preparò un buon caffè, scaldò un po’ di latte, due biscotti e li porse ad Ele... Ele non parlava, sorrideva e diceva solo «grazie», ma in quel sorriso A. aveva visto tutta l’Africa che quella povera ragazza aveva lasciato da bambina e quel sorriso... non riuscirà mai più a dimenticarlo. Ele consegnò ad A. un plico di carte: erano scritte in italiano ed Ele di italiano sapeva poco o niente, solo qualche rara parola che le serviva per lavo- rare, di cui non andava certo fiera, ma che all’oc- correnza usava con profitto. In quei fogli c’era la previsione di un infausto fu- turo (chissà perché i magistrati tendono sempre a rendere le cose più brutte e gravi di quello che sono in realtà... per «spaventarti» dicono, come se di paura Ele non ne avesse già provata abbastanza in quella buia strada del sesso dalla quale prove- niva). In ogni caso le quaranta pagine di carte che Ele nemmeno capiva avevano il peso di quaranta catene di ferro e la stavano imprigionando. A d un certo punto A. vide che Ele aveva smesso di piangere, che si era alzata in piedi di fronte alla finestra... non che ci fosse nulla di interessante da guardare al di fuori di quell’apertura sigillata con una grata di ferro, a parte le ciminiere di una discarica che non ave- vano nulla da spartire con le distese africane in cui Ele aveva trascorso la sua infanzia. A. sapeva che il cuore può procurarsi in breve tempo il bi- glietto per qualsiasi viaggio ed immaginò che Ele stesse appunto viaggiando verso le savane e le colline del continente in cui era nata, dove forse aveva trascorso gli unici momenti sereni della sua giovane e travagliata vita: non volle disturbare quel momento e la lasciò in pace, a gustarsi quel tramonto, quel sole che si stava preparando alla notte. A. non poteva immaginare che cosa sa- rebbe successo in seguito e col senno di poi, avrebbe pensato «chissà se disturbandoti avrei potuto modificare gli eventi successivi... chissà se...». Alle 18 la divisa blu notte dalle unghie smaltate cominciò il controllo delle celle, «la conta» in gergo penitenziario, e arrivata davanti a quella di Ele l’aveva chiamata ma lei non rispose; la guar- dia carceraria, in un misto di rispetto, fretta e su- © AfMC 2008

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