Missioni Consolata - Giugno 2018

D Una Parola ospitale, nel rischio del rifiuto Tornando all’immagine del «sussurrare», è impor- tante sottolineare che è il Vangelo a essere sus- surrato e nient’altro, tanto meno qualcosa che ap- partenga solo all’evangelizzatore. Ad accogliere (o rifiutare) il Vangelo, poi, è niente meno che il cuore dell’altro, quel luogo nel quale risiede il suo mondo, la sua cultura, il suo orizzonte. «Parlare di Dio non può essere come far calare una cappa di piombo sulle cose - scrive Fabrice Hadjadj, scrittore e filosofo francese -. Prima di tutto è un’alba che sorge. […] Ecco l’ineffabile: sta di casa sotto le parole di tutti i giorni. […] Non possiamo parlarne come si parla di una cosa fra le tante, ma non possiamo neppure parlare delle cose della vita se taciamo di Lui che è il loro prin- cipio e il loro fine. Portare il suo Nome non vuol dire farlo cadere dall’alto, ma lasciarlo salire dal fondo di ogni realtà. In questo modo la domanda “come parlare di Dio?”, rinvia non tanto a un argo- mento di conversazione, ma a una modalità ospi- tale di uso della parola» 5 . Il carattere «ospitale» è proprio quello che vorrei descrivere per la missione in Asia: un’ospitalità evangelica restituita a chi ha accolto a casa sua i missionari del Vangelo. E quanto impegno devono profondere i missionari per farsi accogliere dav- vero dai popoli asiatici. Spesso è forte la sensa- zione di essere appena tollerati. In questo impe- gno di empatia, ascolto, studio, inculturazione, non dobbiamo mai perdere di vista il carattere scandaloso del Vangelo: infatti non è raro che la li- bertà altrui, rispettata e fattivamente accolta, comporti il rifiuto. Scrive ancora Hadjadj: «L’effi- cacia della proclamazione genera sempre la possi- bilità di un rifiuto ancora più violento di quello prodotto da una proclamazione meno efficace. […] Sarebbe un errore credere che, se perfetta, la co- municazione evangelica otterrebbe un consenso necessario» 6 . Amicizia, parola, sacramento Tra le varie figure di spicco che nel secolo scorso hanno saputo andare in profondità nell’esplorare (e vivere) la missione e che ci pare utile citare, c’è Catherine Doherty (1896 - 1985). Ispirandosi a uno scritto di Jacques Loew, l’attivista russa emigrata in America riassumeva l’attività missionaria in tre fasi: un tempo di amicizia, un tempo della Pa- rola e un tempo del sacramento. La prima fase, quella dell’amicizia, è per lei fondamentale: non è semplicemente una preparazione, destinata a scomparire in uno stadio successivo, ma la co- stante che accompagna sempre la vita missiona- ria. È da seguire con pazienza, senza fretta. Que- sto tempo di amicizia è il tempo più lungo, la di- mensione principale che caratterizza l’azione mis- sionaria. Nella vita dell’evangelizzatore è il ri- svolto esistenziale, pratico, dell’incarnazione di Dio: assumere la condizione umana, entrare nella trama del tempo e dello spazio e, dunque, della cultura, della storia, della terra così come si pre- senta nel luogo specifico nel quale ci si trova. C’è poi la seconda fase, quella della parola. Essa si realizza solo quando l’amicizia ha messo radici profonde. Solo allora si è in grado di esternare la «notizia bella» che si è stati inviati ad annunciare. Anche qui l’insistenza di Catherine Doherty è sulla delicatezza, la prudenza: «Lo facciamo lenta- mente, con gentilezza, cambiando la fraseologia e la semantica, in modo che siano adatte ad ogni persona e ad ogni contesto». È in questo momento che si fa esperienza di tutta l’inadeguatezza strutturale che ci si porta ad- dosso. Per gli evangelizzatori che hanno abbando- nato la loro terra per inserirsi in un’altra, questa è l’esperienza più radicale: lingua, riferimenti socio- culturali, storia, tradizioni, religioni sono altri ri- spetto ai propri, e ci si rende conto che questo in- cide non poco sulla comunicazione e l’annuncio. È allora che si diventa veri strumenti di chi invia, perché si apre la bocca «in suo nome», non confi- dando nelle proprie strategie e risorse. S’impara a riconoscere chi si è veramente: un seme che deve morire se vuol portare frutto. In questa impo- tenza consegnata si apre il solco perché la Parola venga sussurrata, cada e porti frutto. VANGELO IN ASIA Pagg 42 e 43 : suor Lucia Bortolomasi e padre Giorgio Marengo in due immagini dalla Mongolia. | In queste pagine a sinistra : la Con- solata dipinta da un artista cattolico mongolo e l’immagine del beato Giuseppe Allamano sorretta da due ragazze della parrocchia di Arvahieer. | Qui sotto : la gher (la tenda tradizionale mongola) usata come cappella dai missionari e missionarie della Consolata. D

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