Missioni Consolata - Giugno 2018
1ª regola della preghiera Per pregare bisogna creare le condizioni ambien- tali che non si possono improvvisare «sul mo- mento», del tipo «adesso vado in chiesa a recitare il breviario, il rosario (o quello che si vuole) così mi tolgo il pensiero». Dietro questo modo di « orazio- nare » c’è la paura (e solo quella) di venire meno a un obbligo; se non ci fosse l’obbligo, forse, quasi certamente, non vi sarebbe la preoccupazione di «togliersi il pensiero». Quando dobbiamo incon- trare una persona importante o comunque non abituale, «ci prepariamo» e predisponiamo anche il luogo dell’incontro. Gli innamorati poi sono straordinari: prima dell’appuntamento si prepa- rano meticolosamente: si lavano, si profumano, si vestono adeguatamente e vivono l’ansia dell’at- tesa che li predispone alla gioia della vista e del- l’abbraccio. Tutto è proteso verso l’altro, il quale, anche da assente abita la vita di chi attende. Nella 2ª puntata (marzo/2017), scrivemmo: «Il Talmùd (trattato Berachòt/Benedizioni 30b ) inse- gna che bisogna stare davanti a Dio in una condizione o stato di bellezza , cioè davanti a Dio bisogna presen- tarsi anche vestiti come si conviene e non a casaccio come capita. Nessuno si presenta in casa di ospiti ve- stito di stracci o in tuta da lavoro, ma si mette il vestito bello per rispetto. Se facciamo questo per gli appunta- menti mondani, o per un colloquio importante, o per galateo, come non vestirsi di bellezza nel presentarsi alla Maestà e alla Gloria della Shekinàh /Presenza, sa- pendo che è Dio stesso che vuole stare alla nostra pre- senza?». Non basta essere protesi verso l’altro, è indispen- sabile essere disposti «a perdere tempo per Dio». Solo così la preghiera diventa un dono donato di sé senza calcoli, un abbandono senza riserve in cui trova riposo la vita vissuta prima del momento specifico della preghiera che a sua volta diventa fondamento della vita che segue. Anche se uno o una sono soli, la preghiera è sempre comunitaria perché per sua natura è ekklesiale . Pregando, in- fatti, si passa dallo stato di massa amorfa allo stato di persona cosciente che sa di appartenere a una comunità. Ci sembra che questo sia il senso della «costrizione» con cui Gesù obbliga i discepoli ad al- lontanarsi dal pericolo di essere coinvolti in una massificazione senza volto e nome. La folla è ano- nima, il popolo è sempre cosciente. 2ª regola della preghiera Per pregare occorre «salire», mai scendere, perché pregare è alzarsi di tono, di stile, di vita, salire di senso. È andare in alto, non come estraniazione, ma come processo di allargamento dell’orizzonte. Essa «illimpidisce lo sguardo» e insegna a «vedere» con gli occhi di Dio, il quale, quando comunica, con- voca sempre «in alto» e mai in pianura o negli an- fratti nascosti. Israele è stato costituito popolo ai piedi del Sinai (Es 19,1-15) e la «Parola» scritta e orale scese dall’alto per consacrare l’alleanza (Es 32,15-16). Gesù attira tutti a sé non sdraiato per terra o dondolandosi su un’amaca prendendo il sole, ma dall’alto della croce, essendo «innalzato da terra» (Gv 12,32). I Padri della Chiesa definivano la preghiera come «elevatio mentis in Deum», dove la «mens» latina ha il senso di «energia mentale, com- prensione, spirito dotato di ragione, coscienza» e quindi cuore, anima, temperamento, volontà e pas- sione. Gli Ebrei quando pregano «si dondolano», avanti e indietro, perché nella preghiera anche il corpo deve partecipare, fondendo così un solo af- flato, coscienza e corporeità. In una parola è la tota- lità della persona che «sale» a Dio: è la preghiera in- teriore, il fulcro e il punto di arrivo dello spirito e del corpo che si fondono in un’unica realtà espressa con sentimenti umani. Nota etimologica. «Salire» dalla radice «sal-, sar-» che si riscontra nel sànscrito, nell’antico (e moderno) fran- cese «saillir» significa «zampillare» (dal basso in alto, quindi uscire), mentre nelle lingue slave si è sviluppato il senso derivato di «inviare/inviato/legato»: chi è in- viato è letteralmente «mandato fuori» (idea di movi- mento finalizzato). Applicando questi significati, per altro abbastanza uniformi, alla preghiera, possiamo dedurre che pre- gare voglia dire «zampillare» come una sorgente dal profondo verso l’alto, costruire, innalzare, in al- tre parole educarsi ad affacciarsi sulla soglia della vita di Dio e permettere a Dio di varcare la soglia della nostra vita. Paradossalmente, nella vita spiri- tuale per salire bisogna avere coscienza del proprio «profondo», cioè della propria identità. Se si vuole, assumendo il significato che si è affermato nelle lin- gue slave, è anche bello immaginare che la pre- ghiera sia un «atto diplomatico» dell’orante che porta a Dio le credenziali dell’umanità, facendosi garante con la vita e le parole di quello che porta. Qui possiamo intravedere un aspetto «mediatore» dell’orante che fa propria la vita della comunità/umanità e non si estrania, ma si confonde, diventando una cosa sola, legando il pro- prio destino al destino del mondo, come fa il grande profeta Mosè (Es 24,12-18; 34,2-4). Nota patristica sull’«elevatio mentis» e bibliografia essenziale. Scrive sant’Agostino nella Lettera a Proba : «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con in- sistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della pre- ghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime” (Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cfr. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (sant’Agostino, Let- tera a Proba 130, 9,18–10,20; CSEI 44, GO 63). Per approfondire Cfr. ad es., sant’Agostino, Sermo 9,3 ; Giovanni Dama- sceno (676-749), De fide orthodoxa 3,24 ; Evagrio Pon- tico, De oratione, 3 ; cfr. anche san Tommaso D’Aquino, Summa, IIa-IIae q. 83, art 1 , in La Somma Teologica , edizione bilingue, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014,788-789, dove cita e spiega Giovanni Damasceno. 32 MC GIUGNO2018 Insegnaci a pregare
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