Missioni Consolata - Giugno 2018

• Migranti | Tamil | Hotspot | Diritti umani • Parathi sorride, nonostante tutto. Con il poco cibo che gli viene dato da chi gestisce il campo, mi offre il pranzo. Siamo seduti su una panca in legno tutta traballante: l’ha costruita lui, con la legna trovata nell’ Olive Grove . Mi prepara un piatto di riso, pollo e pomodoro, qualcosa che, dice: «Mi ricorda casa». Casa, dove ha lasciato due figlie, Supidisha, 7 anni, e Karshika, 5. Mi mostra la foto sul cellulare: è orgoglioso delle sue bambine, come ogni papà. È in quel mo- mento che mi dice «sono 23 mesi che non le vedo». La mano trema un po’. Gli occhi si fanno lucidi. Insieme a lui, nel grande tendone posto al centro dell’ Olive Grove , altri quattro Tamil: Hari, Yoga, Danesh e Kayu. Anche loro aspet- tano una risposta, sono qui da meno tempo di Parathi, ma co- munque da più di un anno. L’u- nico spazio «privato» per loro, è un letto a castello con delle co- perte vecchie e logore appese a fare da separè. Nel tendone in- fatti, ci sono più di 200 persone. Quando li saluto, mi sorridono « we miss you, write us mam », e da allora, da quando ci siamo sa- lutati il 1 gennaio del 2018, non passa giorno che Parathi non mi mandi con un WhatsApp la buo- nanotte e il buongiorno. Il vecchio e il nipote Il nonno ha 70 anni. Per dirmelo me lo indica con le mani, come quando, da bambini, iniziamo a contare. «Doctor, doctor», ha im- parato questa parola perché è ciò di cui ha più bisogno. Seduto sul ciglio di una piccola tenda cana- dese, mi chiama così, pensando di aver trovato ciò che più gli serve. Mohamed è arrivato dall’Afghani- stan insieme a suo nipote adole- scente. È un «caso vulnerabile»: alla sua età non potrebbe essere altrimenti. La sua condizione è scritta, in greco e in inglese, sul certificato che mi mostra. Lui non capisce né l’una né l’altra lingua ma sa, in qualche modo, cosa si- gnifica quel timbro. Sa che gli darebbe diritto a cure mediche, a un giaciglio asciutto e caldo, a cibo che possa masticare, senza che le mascelle gli dolgano, senza far fatica. Quando mi avvi- cino si toglie il cappellino di lana vecchia, infeltrita. Mi mostra delle cicatrici, mi prende una mano e me la porta alla sua testa, vuole che le tocchi, cerca di farmi capire dove sente dolore. Gli mostro la mia macchina foto- grafica, mimo il gesto di scattare una foto. Non c’è nessun media- tore culturale con me in quel mo- mento, non so spiegarglielo chi sono, non so dirgli che non posso fare niente per lui. Prima di an- dare, gli mostro ancora la mac- china fotografica, lo indico, mi in- dico. Questa volta sì, gli sto chie- dendo il permesso. Lui mi guarda, si raddrizza sostenendosi con un bastone ricavato da un ramo d’al- bero, si porta la mano al cuore e annuisce: scatto una foto, due, tre mentre mi allontano. Lo guardo, fermo così, una mano sul bastone, un sorriso appena ac- cennato, mi saluta a suo modo. Spero abbia capito. Spero, soprat- tutto, sia servito a qualcosa. Sarà un altro uomo, afghano an- che lui, a raccontarmi del vecchio Mohamed e di suo nipote. A dirmi di come quel ragazzo si prende MC A Qui a fianco : una famiglia curda costretta a vivere in piccole tende canadesi e a scal- darsi con un fuoco improvvisato. #

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