Missioni Consolata - Maggio 2018

non crede, non va mai in chiesa e le cose gli vanno a gonfie vele. Cosa ho fatto di male al Signore per meritare questa ingiustizia? Pregare è la scuola dove impariamo a purificare questo modo pagano e miscredente di concepire Dio. Chi pensa così vede Dio come una macchinetta automatica che funziona a comando con una mo- neta. Non abbiamo garantita la tranquillità; le onde, il vento e l’agitazione del mare restano per noi e per tutti: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), di cui il credente assume pesi e presenze: «portate i pesi» (Fil 2,1) e «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Mt 14, 26: « 26 Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “ È un fantasma! ” e gridarono dalla paura». Egli garantisce la «presenza», anche se bisogna aspettare tutta la notte, perché giunge cammi- nando sulle acque, correndo anche lui il rischio che noi lo scambiamo per un «fantasma», cioè una par- venza inconsistente, un nulla, un vuoto. Pregare è imparare a riconoscere la presenza del Si- gnore negli eventi della vita, nelle avversità, nel vento contrario, nel mare agitato, nella calma della bonaccia. Spesso Dio è un «fantasma» che agita il nostro sonno perché lo vorremmo magico, a nostra disposizione, ai nostri ordini, a «nostra immagine e somiglianza». In questo senso pregare è «illimpi- dirsi lo sguardo» perché essa ci insegna a purificare Dio da ogni vacuità-fantasma, da ogni segno di ido- latria e ci educa a stare con lui «sull’altra riva», cioè sulla riva della consapevolezza, del discernimento e del dubbio, quello che anima la fede. Stare acco- vacciati sulla soglia della paternità per essere sem- pre pronti a coglierne le sfumature di tenerezza e di amabilità. L’Eucaristia è la scuola principe dove im- pariamo tutto questo, se non la trasformiamo in un fantasma di passaggio. Mt 14,27-33: « 27 Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “ Co- raggio, Io-Sono, non abbiate paura! ” . 28 Pietro allora gli ri- spose: “ Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque ” . 29 Ed egli disse: “ Vieni! ” . Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30 Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, comin- ciando ad affondare, gridò: “ Signore, salvami! ” . 31 E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “ Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ” . 32 Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33 Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “ Davvero tu sei Figlio di Dio! ” ». Ancora un avverbio di tempo di immediatezza e coinvolgimento ( subito ) che elimina le distanze, az- zera la paura: «Coraggio, Io-Sono». Il coraggio sta nell’identità. Non è esatto tradurre «Sono io» scialbo e banale. Mt usa il greco «Egô Eimì» che è il nome con cui nella Bibbia greca della LXX, tradu- cendo il corrispettivo ebraico, «Yhwh» si presenta a Mosè sul Sinai. La preghiera non mette davanti alla «divinità», ma immerge nell’abisso dell’identità del Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, il Dio dei volti e dei nomi, il Dio dell’esodo, il Dio della storia e della liberazione, il Dio che «scende» in mezzo alle schiavitù per spezzare le catene e ren- dere la pienezza della libertà col codice dei coman- damenti. Il Dio della mia vita. È questa libertà che fa camminare Pietro sulle ac- que, anche se egli è incompleto e imperfetto, tanto da rischiare di affondare. «Signore, salvami». Non dice «Dio», ma «Signore», parola che solo dopo la risurrezione è abituale tra i discepoli e che è il fon- damento della professione di fede, urlata dal pa- gano centurione romano che «avendolo visto spi- rare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). La libertà e la morte di Dio sono il fondamento della sua alleanza e della sua volontà di salvezza. Quando preghiamo, Dio irrompe nella nostra vita e noi assumiamo la storia di Dio per farne la nostra quotidianità, mentre offriamo la nostra ordinaria esistenza per farne la salvezza di Dio che egli sparge sul mondo intero. Nel pregare, quale atteggiamento vivo? Di sfida a Dio o di fiducia e confidenza? Quando prego, riesco a vedere la mano che il Signore mi tende? Mi lascio afferrare? O preferisco fare da me rischiando di affondare? O preferisco la palude delle grette bana- lità? Sono consapevole che per fare cessare il vento, è indispensabile essere «sulla barca» con lui? Conclusione In sintesi, per pregare bisogna passare dallo stato di «massa/folla» a quello di persona cosciente, pas- saggio che può avvenire anche attraverso una co- strizione; è necessario salire dal basso verso l’alto; non basta salire, occorre salire sul monte, cioè al «luogo di Dio»; occorre sapere stare soli, anche a lungo, fino a sera, sapendo che la solitudine è co- scienza di sé a differenza della solitarietà che è chiusura in sé; pregare è perdere tempo per e con la persona amata, qui Dio, Padre, amico compagno. Gesù perde tanto del suo tempo con il Padre suo: pregare per lui non è fuggire dalla vita, ma immer- gersi in essa per coglierne la trama intessuta di Dio. Gesù domina le acque e salva Pietro: nella pre- ghiera noi impariamo a gestire la nostra vita per condividerla con la comunità, la Chiesa e il mondo per farne un dono a Dio che ce la restituisce in be- nedizione e santità. Insegnava un santo monaco che per entrare nello spirito della regola monastica non basta un paio d’anni di noviziato, ma occor- rono cinquant’anni di vita di osservanza di essa per cominciare a respirarne lo spirito. Solo dopo può iniziare il noviziato, cioè l’ingresso nella vita mona- stica. Per la preghiera è lo stesso: non basta qual- che preghiera, sparsa qua e là, occorre una vita di preghiera per imparare a respirare all’unisono col Padre, il Figlio e lo Spirito, affinché in punto di morte, si possa dire: Amen, oh, sì, eccomi! Ora so pregare perché sono orante. Paolo Farinella, prete [14, continua] 34 MC MAGGIO2018 Insegnaci a pregare

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