Missioni Consolata - Aprile 2018

54 MC APRILE 2018 PERÚ Nella comunità kichwa di Nueva Angusilla «Sì, io sono il cacique» Sul fiume Putumayo, come su tanti altri fiumi amazzonici, vivono varie comunità indigene. Spesso dimenticate dallo stato centrale. V erso Nueva Angusilla . Da Soplín Vargas navighiamo lungo il rio Putumayo verso Sud per 140 chilometri. Quando il fiume incontra il rio Angusilla, suo affluente, siamo arrivati alla comunità kichwa di Nueva Angu- silla. L’avamposto militare - qualche casupola dipinta di verde e un’insegna posta sul terreno antistante - sta su un promontorio senza alberi. Ma la posizione è perfetta: all’intersezione tra i due fiumi. Poco più avanti, sul pontile un gruppo di adulti e bambini sono in attesa della nostra lancia. I cartelli di benve- nuto tenuti dai piccoli sono per mons. José Javier Travieso Martín: è un’occasione unica perché il ve- scovo risiede a San Antonio del Estrecho, molto lon- tano da Nueva Angusilla. Il villaggio è stato costruito con una struttura ret- tangolare: il lato libero guarda verso il fiume, sugli altri tre sono sorte le abitazioni. Le case - fatte di assi di legno e tetto di lamiera o di frasche - sono rialzate dal terreno di circa mezzo metro. Al centro, sproporzionata rispetto al resto, c’è la costruzione più moderna, chiamata Centro de Servicio de Apoyo al Hábitat Rural , ma da tutti conosciuta come « tambo ». È un progetto del governo peruviano per ospitare - nei luoghi più disagiati - i principali servizi pubblici: registro civile, credito e appoggio tecnico ai contadini, consultorio medico, asilo nido per bam- bini, consulenza giuridica e altro ancora. Però, a Nueva Angusilla come altrove, c’è solo il contenitore fisico, mentre i servizi mancano o sono molto ca- renti. «Qui ci sono circa 120 abitanti. Si vive di agricoltura e pesca. E poi lavoriamo con il legno con cui fac- ciamo assi vendute in Colombia», mi dice gentile ma forse un po’ a disagio Eliseo, un abitante che si sta dirigendo verso il locale comunale - una struttura in legno aperta e con un tetto di frasche - dove il ve- scovo impartirà battesimi e comunioni. Cerco il capo, il responsabile della comunità: il caci- que , ma meglio sarebbe dire apu o curaca . Eccolo. Statura piccola e volto da giovanissimo, risponde volentieri alle domande anche se con visibile timi- dezza. «Sì, sono il cacique. Mi chiamo Jackson Ke- nide Mashacuri Andi e ho 24 anni. La popolazione mi ha eletto come autorità di qui. Mi piace molto stare con la gente per aiutarla a organizzarsi». E con orgoglio aggiunge: «Ho fatto il quinto grado della scuola secondaria e dunque sono capace di di- fendermi». Precisa che gli abitanti sono 117 che vi- vono coltivando yuca e platano (banane da cuocere, ndr ) e pescando per il proprio consumo. Spiega che, come cacique, fa parte di una organizzazione chia- mata Fikapir - Federación Indígena Kichwa Alto Putu- mayo Inti Runa -, la quale funge da intermediario con le autorità statali. Chiedo dei problemi che ci sono. «Per la salute non c’è quasi appoggio. Per l’educazione stiamo cer- cando di avere professori bilingue. Adesso abbiamo soltanto insegnanti meticci che non parlano la no- stra lingua. Qui la popolazione parla kichwa». Anche i giovani?, chiedo. «Sì, anche loro. Lo parlano in casa ma non a scuola». Ci sono problemi di malaria? Fa una smorfia prima di rispondere: «Eh, sì. Soltanto un mese fa c’erano 20-25 persone contemporaneamente con la malaria. Malaria vivax». E c’è la posta medica?, intervengo. «Sì, ma non abbiamo il tecnico». Oggi è una giornata di festa. Bisogna andare a man- giare. Pollo, riso, platano fritto. Prima di risalire sulla lancia, Jackson mi presenta la sua famiglia per un’ultima foto. Paolo Moiola

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