Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2018

e VI aveva inventato lo schema Ora et labòra (pre- gare e lavorare), ma oggi bisognerebbe modificarlo in «Ora est labòra» (pregare è lavorare). La pre- ghiera, infatti, è lavoro perché, come nell’amore, impegna «cuore, testa e pelle». Quando gli Ebrei pregano, dondolano il corpo perché anch’esso par- tecipi all’azione interiore del pensiero e dell’af- fetto. Non possiamo separare queste tre dimen- sioni senza creare una frattura in noi che per istinto tendiamo all’unità tra pensiero, sentimenti del cuore, atteggiamenti corporei. È quello che si chiama «movimento ecumenico personale» per- ché il sentiero dell’unità tra le Chiese passa attra- verso il cuore di ogni singolo credente che guarda alla sintesi armonica dell’essere e dell’agire tra: Chi si è e ciò che si fa. Ciò che si fa e ciò che si prega. Ciò che si prega e ciò che si desidera. Ciò che si desidera e ciò che si spera. Ciò che si spera e ciò che si pecca. Ciò che si pecca e ciò che si riceve in grazia. Questa è la preghiera: rimescolare le carte, intra- prendendo un cammino verso la maturità e l’ar- monia per raggiungere la coscienza di sé e sapersi riconoscere come figli-immagine del Padre. Diver- samente, pregare si trasforma in un soliloquio, un parlare con se stessi, macinando parole morte, veri idoli che occupano la mente, impedendo di abitare il cuore. Sapere chi si è È la domanda esistenziale che la commissione d’in- chiesta inviata dal sinedrio pone a Giovanni: «“Tu, chi sei?” Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo”. Allora gli chiesero: “Chi sei, dunque?”» (Gv 1,19-21). La domanda posta dalla commissione a Giovanni «Chi sei tu?» (Gv 1,19 e 22; cf 8,25; 21,12), è la domanda che attraversa la storia di ciascuno di noi, perché ci obbliga all’indi- viduazione della nostra identità. In altre parole: io devo sapere chi sono . Non basta avere opinioni, o formule precostituite (Elia, il profeta, uno dei pro- feti, ecc.), bisogna sapere chi si è e chi non si è, bi- sogna cioè avere un contatto vero e coerente con i nostri confini, se si vuole vivere la vita nell’autenti- cità e nella verità. La commissione d’inchiesta parte dal tempio, inviata dai farisei, cioè dai cu- stodi delle tradizioni, del culto, della spiritualità, della liturgia, della regola: sono gli specialisti del sacro. Noi siamo specialisti della vita religiosa, per- ché poniamo Dio nel mezzo dei nostri discorsi, dei nostri ragionamenti, attribuendo a lui le nostre aspirazioni e convinzioni. C’è il rischio d’identifi- carci con Lui e di contrabbandare la nostra volontà con la sua e quindi di chiuderci alle «gioiose noti- zie» che ogni giorno c’invia attraverso gli avveni- menti che viviamo, anche quelli che a noi sem- brano banali o insignificanti. La domanda Chi sei tu? è personale e acquista un senso nuovo e dirompente: «Perché ho fatto que- sta scelta di vita, questo lavoro, questi impegni? Qual è la mia identità personale all’interno degli ambienti di vita e nelle relazioni che vivo? Qual è il senso del mio essere uomo, donna, madre, figlia, marito, figlio? Giovanni sgombra subito il terreno, distruggendo le eventuali illusioni che i commissari avrebbero potuto farsi di lui e li incalza: «Io non sono il Cristo», scartando onori e compiti che non gli appartengono. Può succedere che le persone che vengono a contatto con noi, tendano a consi- derarci migliori di quanto non siamo. Non possiamo illuderci con le apparenze: la nostra consistenza è semplicemente nell’essere noi stessi, sempre, ovunque con chiunque. Anche se questo comporta incomprensione, giudizi, etichettature, esclusione. Forse è possibile che di fronte agli altri non sap- piamo cosa rispondere, ma quando rientriamo nel segreto della nostra stanza, là dove non possiamo né barare né nasconderci, «il Padre tuo, che vede nel segreto» (Mt 6, 4.6) ci obbliga a rispondere alla verità di noi stessi: «Chi sono io?». Questo è l’obiet- tivo della vita, lo scopo della rivelazione, la dimen- sione della preghiera. Se non sappiamo chi siamo, come possiamo presentarci agli altri e a Dio, l’Altro per eccellenza? «Non posso insegnarvi parole di preghiere» Il cristiano maronita libanese, poeta, scrittore e mi- stico, Jubrān Khalīl Jubrān (1883-1931), in occi- dente conosciuto come Kahlil Gibran, parlando della preghiera usa parole profonde, da orientale ( sottolineature nostre ): «...allora una sacerdotessa disse: Parlaci della Preghiera. Ed egli rispose, dicendo: Voi pregate nelle angustie e nel bisogno; ma io vorrei che pregaste anche nella gioia piena e nei giorni dell’abbondanza. Poiché che altro è la preghiera se non l’espansione di voi stessi nell’etere vivente? Ed è a voi di conforto versare nello spazio , la vostra oscurità, ed è anche per voi diletto versare all’esterno la gioia mattinale del vostro cuore. E se non potete fare a meno di piangere quando l’anima vi chiama alla preghiera, essa dovrebbe spingervi, comunque, fino al punto che attraverso le lacrime spunti il sorriso. Quando pregate voi v’innalzate a incontrare nell’aria tutti coloro che in quel medesimo istante sono in pre- ghiera , che mai, se non nella preghiera, potreste incontrare. Perciò non sia questa vostra visita a quell’invisibile tempio che estasi e dolce comunione. Poiché se intendeste entrare nel tempio non per altro che per chiedere, non ricevereste nulla. E se entrate per umiliarvi, non sarete innalzati. E se anche voleste entrare per intercedere per il bene di altri, non sarete esauditi. Basta già che voi entriate nell’invisibile tempio. Io non posso insegnarvi parole di preghiere. Dio non ascolta le vostre parole, a meno che Egli stesso non le pronunci attraverso le vostre labbra. Ed io non posso insegnarvi la preghiera dei mari, delle foreste, delle montagne. Ma voi, nati dai monti, dalle foreste e dal mare potete 32 MC GENNAIO-FEBBRAIO2018 Insegnaci a pregare

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