Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2018
20 MC GENNAIO-FEBBRAIO2018 raro esempio di stabilità nella re- gione. Nel 1994, però, Yahya Jam- meh sale al potere con un colpo di stato militare e sul paese cala una grigia coltre di repressione e ter- rore. Nel 2013, poi, il satrapo esce dal Commonwealth e due anni più tardi dichiara la nascita della Re- pubblica islamica per «affrancarsi dal giogo neocoloniale». Tempi duri per la stampa Banjul, capitale del Gambia, è oggi una città divisa in due. Da una parte il centro amministrativo del paese, con parlamento, ministeri, tribunali, prigioni e caserme. Dall’altra, collegata da un ponte e una strada, costellata di posti di blocco, che corre lungo l’Oceano, abitazioni, hotel, ristoranti, mer- cati e negozi. Mentre il cuore poli- tico della capitale si riempie e si svuota di uomini in giacca e cra- vatta al ritmo degli orari d’ufficio, i quartieri residenziali sono co- stantemente brulicanti di vita, musica, luci, bambini e traffico. «Uno dei lasciti tangibili dello stato di polizia è la separazione fra classe politica e persone co- muni». Va dritto al sodo Buabacar Ceesay. Questo giornalista sulla quarantina è la miglior guida della città: cappellino da pescatore con visiera alzata, sorriso conciliante e telecamerina sempre in mano. «Più di venti fra i migliori giornali- sti gambiani, quelli con maggiore esperienza e spirito critico, sono stati costretti all’esilio in Senegal, Olanda, Germania… io e altri in- vece, nonostante le minacce e le incarcerazioni subite, abbiamo deciso di restare per cercare di colmare il vuoto di libertà di stampa nel paese». In passato eletto vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti gambiani, oggi Cee- say è freelance per scelta. Ha molte collaborazioni nazionali e internazionali. Negli ultimi anni ha scritto anche per Foroyaa , «l’oc- chio pubblico», giornale più volte chiuso da Yahya Jammeh insieme a molti altri media indipendenti. «Durante il vecchio regime, peg- gio della censura era l’autocen- sura che i giornalisti esercitavano su se stessi per evitare problemi», racconta Buabacar mostrando fiero la sua piccola scrivania e il computer nella redazione del quotidiano «sovversivo». «Prima usavamo media stranieri, blog, siti web e social network per aggirare i controlli degli uomini di Jam- meh». A quei tempi gli informa- tori del potere erano dappertutto e bastava una critica per essere arrestati o sparire per sempre. Social media per la rivolta Le nuove tecnologie e i social me- dia giocano un ruolo cruciale du- rante le manifestazioni di aprile 2016 quando il malcontento gene- rale straripa in vista delle elezioni presidenziali. Per la prima volta, infatti, immagini di arresti e tor- ture dei manifestanti vengono mostrate al paese e al mondo in- tero, creando un inarrestabile ef- fetto domino che porterà, mesi dopo, alla caduta del sovrano. L’uccisione di Solo Sandeng, attivi- sta brutalmente trucidato dagli uomini della National Intelligence Agency (Nia, la polizia segreta) rappresenta il punto di non ri- torno. Repressi i moti popolari nel sangue e riempite le carceri, Yahya Jammeh si presenta alle elezioni del dicembre 2016 per il quinto mandato consecutivo, come sem- pre sicuro di vincere. Le urne in- vece indicano il 43.33% delle pre- ferenze per il Partito democratico unito (Udp, sigla in inglese), coali- zione delle forze socialdemocrati- che d’opposizione guidato da Adama Barrow, e solo il 39.6% per l’Alleanza Patriottica per il Riorien- tamento e la Costruzione (Aprc), partito di Jammeh, per anni unica GAMBIA
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