Missioni Consolata - Novembre 2017
COREA DEL SUD 18 MC NOVEMBRE2017 prendere una foglia di lattuga, metterci dentro una fettina di maiale bollito, poi la salsina, poi un pezzettino di aglio crudo in- tinto in un’altra salsina e qualche erbetta di quelle che vedi nei vari piattini, poi fai un boccone e lo mangi”. Mentre Tamrat mi par- lava, una signora ha seguito tutti i suoi movimenti e ha capito la si- tuazione. In men che non si di- cesse aveva preparato il boccone e me lo ficcava in bocca, aglio crudo e tutto. Era un segno di grande onore: così facevano le cortigiane con il re nei tempi che furono. L’aglio crudo in bocca fa- ceva un bruciore diverso da quello del peperoncino rosso. Il mio cervello sopraffatto da tanto onore gridava: “Acqua, pom- pieri”. Appena il padrone di casa, seduto di fianco a me, ha intuito il mio sguardo e il mio movimento verso il bicchierino che mi stava davanti, è scattato in azione: nes- suno può servirsi da bere da solo. Il gentil signore mi ha riempito il bicchiere di Soju, grappa coreana. Bisogna sapere che: 1) il Soju ha lo stesso colore dell’acqua; 2) il Soju fa dai 18 ai 22 gradi, quindi è “leggermente” più alcolico del- l’acqua. L’etichetta impone, senza scarti alla regola, che una volta vuotato il bicchierino io lo prenda, lo riempia di Soju e lo dia a colui che me l’ha appena of- ferto, il quale, per rispetto a me, lo svuota in un sol sorso. A quel punto è stato come se fosse ca- duta una barriera invisibile: gli al- tri commensali, uno per uno, si sono alzati per venire a rendere omaggio all’ospite d’onore, cioè a me, con lo stesso identico rito». Shiksa «Abbiamo poi continuato a man- giare, ma adesso anch’io sceglievo le cose che mi piacevano di più. Quando oramai ero ben pieno, la padrona di casa ha annunciato, tutta gaia: “Shiksa”. Ma shiksa vuol dire cibo, mangiare. E fino a quel momento cosa avevamo fatto? In Corea, in effetti, non si è mangiato finché non arriva il riso. Mi sono detto: “E come faccio io adesso? Sono già strapieno”. Poi improvvisamente la conversa- zione si è animata e ho capito che stava capitando qualcosa: era ar- rivato il momento delle canzoni, e ognuno doveva cantarne almeno una da solo. Padre Diego si era appena defilato con la scusa di andare a fumare. Ce l’aveva fatta di nuovo: in 28 anni di Corea pare che nessuno sia mai riuscito a farlo cantare da solo. Io invece, ero già riuscito a imparare una canzone. Quando è venuto il mio turno è stato un successo imme- diato. Tra gli applausi tutti mi di- cevano: “Che bravo, sei da poco tempo in Corea e ami già così la nostra cultura, ecc.”. Ma col suc- cesso… è arrivato anche il Soju. A quel punto tutti volevano offrirmi da bere. Io pensavo: “Qualcuno mi aiuti, mi difenda”. Guardavo padre Tamrat che aveva il bic- chiere pieno dall’inizio ed era riu- scito a fingere di portarlo alle lab- bra varie volte senza toccarlo: lui riusciva a conversare con tanta naturalezza che nessuno se ne ac- corgeva. Padre Gian Paolo mi aveva spiegato la teoria del Soju: dopo 4 bicchieri la stanza comin- cia a muoversi da sola; dopo 8 uno dice: “Posso volare”; dopo 12, uno si sente antiproiettile come Superman. Bene, io ancora non potevo volare, ma dalla torre di controllo mi stavano chia- mando per andare in pista. Finalmente oramai la cena era fi- nita, ero salvo. Mi sono alzato ma le gambe erano addormentate e facevo fatica a stare in piedi. La testa girava un po’ e la bocca era piena di sapori strani e bruciava. Il naso gocciolava. La pancia era strapiena e non capivo più una parola. Troppo onore, troppe esperienze nuove, troppa incultu- razione. Allora mi sono detto: “Domani riposo, e magari salto anche pranzo!”». Gian Paolo Lamberto Qui, da sinistra : p. Patrick Mrosso (Tanza- nia), Geoffrey Boriga (Kenya), p. Diego Cazzolato (Italia), Shin Ghi Jin (amico co- reano che da anni stampa la nostra rivista locale), p. Gian Paolo Lamberto (Italia). #
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