Missioni Consolata - Maggio 2017
Quel diavolo di Maradona Campione assoluto sui campi di calcio, nella vita privata il giocatore argentino ha sofferto di grandi fragilità, come la sua (passata) dipendenza dalla coca. Amico di Fidel, politicamente si è sempre schierato tra i progressisti. Anche in questo Maradona non è e non è mai stato un uomo comune. Persone che conosco Personaggi e luoghi con gli occhi di Gianni Minà C on Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro , ho avuto un rapporto speciale fin dal suo arrivo in Ita- lia. Aveva già un manager e un ufficio stampa per- sonali consci di quello che lui rappresentasse per il calcio mondiale e anche per il costume del nostro tempo. Così fin dalla sua prima stagione in Italia (1984-1985) po- tei proporre a la Repubblica , con la quale collaboravo, un’intervista che non fosse solo calcistica, ma toccasse ar- gomenti meno banali. Mi sorprese subito la sua franchezza. Non aveva paura di esporsi. Già allora aveva idee precise anche sulla politica: era un simpatizzante progressista. La nostra confidenza crebbe rapidamente nei suoi primi due anni a Napoli quando ancora non era palese, per il valore medio della squadra, che la sua sola presenza in campo avrebbe mutato radicalmente gli equilibri non solo del Napoli, ma di tutto il calcio del campionato italiano. La nostra amicizia si rafforzò ai mondiali di Messico 1986 che - non è un’esagerazione - Diego vinse praticamente da solo con il famoso «gol del secolo» (7 giocatori dell’In- ghilterra dribblati in una sola azione) e con i due in semifi- nale contro il Belgio dove esaltò le sue capacità di equili- brio e di dribbling oltre ogni immaginazione. Ho una fotografia ( vedere pagina seguente ) con lui sui gradoni del centro sportivo del Club America, a Città del Messico, dove l’Argentina passava allora parte del ritiro. Era l’impianto di proprietà di Emilio Azcarraga, magnate di Televisa, la televisione privata messicana partner della Fifa nell’organizzazione di quel mondiale. In quell’occa- sione, Diego mi confessò l’esigenza ormai impellente per il Napoli e per le sue ambizioni di lottare per lo scudetto nel campionato italiano che frequentava da 2 anni. Era evidentemente un’esigenza dettata dagli 80mila spet- tatori che riempivano con continuità lo stadio di Fuori- grotta ed erano pronti per un riscatto della città. Maradona fu profeta: la stagione successiva, rinforzato da Carnevale e De Napoli, il Napoli, allenato da Bianchi, vinse lo scudetto, il primo della sua storia e la vittoria della squadra di calcio ebbe un dichiarato significato sociale. Tanto che Rai Uno mi chiese di inventare e condurre quella «notte magica» alla quale parteciparono tutti i rap- presentanti della musica popolare e del teatro della città: da Renzo Arbore a Pino Daniele, riuniti all’auditorium della Rai stessa in una festa per lo scudetto presentata in- sieme a Lina Sastri e rimasta memorabile: «O mamma mamma mamma. Sai perché mi batte il corazon ? Ho visto Maradona, ho visto Maradona. Eh mammà innamorato son!». Il centro della città rimase ostruito fino a notte inoltrata. Sulle mura del cimitero la mattina dopo com- parve una scritta: «Che ve siete perso». Napoli si scrollava di dosso, per qualche tempo, i suoi dubbi, le sue contraddizioni, le speranze non rispettate. Grazie al dio Maradona la squadra vinse la coppa Italia (1987), una coppa Uefa (1989) e infine un secondo scu- detto (1990). Furono gli anni nei quali Maradona sot- trasse, a nome del Napoli, il predominio del calcio ai grandi club del Nord, anche politicamente. E fu evidente- mente un atto imperdonabile. Purtroppo però quelli fu- rono anche gli anni nei quali Diego si perse e con lui il Na- poli e le sue speranze. Fu un concorso di accadimenti ne- gativi. Maradona, eroe in campo, era fragile nella sua vita privata. Conscio di questa situazione avrebbe voluto ac- cettare l’offerta di un calcio più tranquillo, come quello francese propostogli da Tapie, presidente del Marsiglia, ma il rifiuto del presidente napoletano Corrado Ferlaino (nonostante una sua precedente promessa) lo lasciò diso- rientato. Così una mattina all’alba andò all’aeroporto di Fiumicino con la sua famiglia e letteralmente si sottrasse all’assedio mediatico ed economico di cui era diventato prigioniero. H o condiviso di persona la sua fragilità di quegli anni, ma anche le ultime prepotenze subite durante Ita- lia ’90 (come le partite dell’Argentina programmate sotto il solleone o gli arbitraggi discutibili che avevano fatto presagire un trattamento ostile verso la nazionale albiceleste). Quel 3 luglio 1990, allo stadio napole- tano di San Paolo, metà del pub- blico tifava per l’Italia e l’altra per lui. Aveva guidato un’Argentina modesta alla semifinale con- tro l’Italia e mi piace ricordare che ancora una volta fu con me sincero e onesto: «Se ce la facciamo pure oggi giuro che ti vengo ad abbrac- ciare al sottopassaggio de- gli spogliatoi». Fu di parola, anche perché il penalty ri- solutivo della lotteria dei ri- gori toccò a Diego stesso. Mi precipitai con la troupe nel sottopassaggio, ma non ce ne era bisogno. Maradona, an- cora in maglietta e scarpini da calcio, era già lì e mi aspettava con un sorriso beffardo. I giorna- listi argentini lo videro passare e rifiutare l’offerta del loro mi- crofono. Quelli italiani si sentirono solo
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