Missioni Consolata - Aprile 2017

M i resi conto di questo stato delle cose quando, quattro anni dopo, nell’estate del 1998, decisi di imbastire una delle puntate del programma «Storie» della Rai con i genitori di Ilaria, instancabili nella loro richiesta di giustizia. Un filmato, che mi aveva passato la Tv svizzera e che era stato girato pochi secondi dopo l’eccidio, aveva una volta di più smentito la versione dei fatti sostenuta in una let- tera alla famiglia, inviata all’epoca (e senza che fosse stata richiesta) dal comandante del Corpo di spedizione italiano in Somalia Carmine Fiore. Al contrario di quello che scriveva l’alto ufficiale, le imma- gini confermavano che: il primo ad arrivare sul luogo del- l’eccidio era stato Giancarlo Marocchino, collaboratore dei nostri servizi segreti in quella Somalia disperata e senza legge, e non qualcuno dei militari acquartierati sul caccia- torpediniere Garibaldi. Era stato lo stesso Marocchino a trasferire i corpi di Ilaria e Miran dal van in cui erano stati colpiti a una jeep di sua proprietà, dopo un tesissimo scambio di battute a un radiotelefono con qualcuno che si rifiutava di intervenire e che, alla fine del colloquio - car- pito dal microfono della cinepresa dell’operatore svizzero - lo spingeva a commentare: «Quei bastardi non vengono, hanno paura». I bastardi erano evidentemente i militari del corpo di spedizione italiana, a cui lo stesso Maroc- chino, subito dopo, sarebbe andato a consegnare il suo tragico carico al Porto Vecchio, dove finalmente era in ar- rivo un elicottero delle nostre forze armate. Ad Ilaria Alpi, nel momento dell’intervento di Marocchino, come confermano le immagini, colava sangue dal naso. Un dettaglio che segnala come il suo cuore pompasse ancora sangue e quindi, pur con sicuri danni cerebrali, che la gior- nalista fosse ancora viva. Sulla Garibaldi sarebbe stato fatto un esame dei corpi, si- curamente fondamentale per stabilire i particolari della morte, ma del quale il generale Fiore non avrebbe fatto nessun cenno nella sua lettera. Di quell’esame i genitori di Ilaria sarebbero venuti a conoscenza solo parecchi anni dopo. Le scarne notizie della lettera del generale Fiore erano co- munque quasi tutte inesatte, tanto che Luciana e Giorgio Alpi non avrebbero partecipato al riconoscimento della salma al suo arrivo in Italia, perché era stato loro prean- nunciato che la figlia era sfigurata dalle pallottole, mentre invece il colpo mortale era stato uno solo e alla nuca. L’enormità e la crudeltà di queste bugie sollecita, ancora adesso, una domanda fondamentale: che interesse pote- vano avere certe istituzioni dello Stato italiano a coprire si- mili efferatezze? In nome di cosa l’hanno fatto? Quali realtà il cittadino della Repubblica italiana non deve sa- pere? Nello studio della Rai Luciana e Giorgio Alpi ( nella foto in alto ) ripercorsero, in quel torrido luglio del ’98, le tappe della loro infinita amarezza finché, alla fine di un fil- mato sul ritorno a casa delle salme, Luciana si accorse che i bagagli di Ilaria e Miran, nello scalo di Luxor, in Egitto, dove l’aereo di linea era stato sostituito da un velivolo della nostra aereonautica militare, erano legati e saldati con la cera lacca, mentre all’arrivo a Ciampino la corda che li imbrigliava era sparita. Per caso due operatori diversi avevano diretto i loro obiettivi sul nastro di discesa delle valigie. Solo l’angoscia di una madre poteva cogliere quel dettaglio così impor- tante e inquietante. Sull’aereo, infatti, oltre ai militari dell’aereonautica c’e- rano: ufficiali del Corpo di spedizione in Somalia, agenti dei servizi segreti, funzionari del nostro ministero degli Esteri e dirigenti della Rai. Chi aveva avuto l’ardire, du- rante il volo, di aprire quelle borse, quei pacchi, e perché? Forse per far sparire i taccuini di Ilaria o alcune cassette di Miran? Quale era il segreto di Stato che dovevano co- prire? «Dove sono finiti i 1.400 miliardi della cooperazione ita- liana con l’Africa?». Aveva scritto Ilaria prima di partire per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. S ono passati 23 anni aspettando la verità. Lo scorso 19 ottobre la Corte d’appello di Perugia ha ricono- sciuto che per 16 anni c’è stato un innocente in car- cere, il somalo Hassan Omar Hashi ( nella foto a sinistra ), condannato per un doppio omicidio che non aveva com- messo, e chiaramente usato come capro espiatorio per una testimonianza organizzata anche dall’apparato dei servizi segreti italiani. Un errore giudiziario dovuto all’esi- genza politica di trovare a qualunque costo un colpevole di questo crimine che nascondeva gli oscuri traffici tra l’I- talia e la Somalia dell’epoca. «Dopo 23 anni di depistaggi e bugie - ha commentato la mamma di Ilaria Alpi - che la Procura di Roma ha elargito alla mia famiglia, mi auguro che alla luce di questa sentenza, i magistrati romani ci diano verità e giustizia. Inoltre, sarei felice se il presidente della Repubblica leggesse le motivazioni della Corte di Pe- rugia». Anche il «Premio Ilaria Alpi», istituito nel 1995 per ricor- dare la giornalista, è stato chiuso nel 2014 su sollecita- zione di Luciana Alpi, tradita dalle istituzioni italiane che, in 23 lunghissimi anni, non hanno voluto o saputo fare giustizia per la morte della figlia Ilaria. Gianni Minà Persone che conosco MC R 82 MC APRILE2017

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