Missioni Consolata - Aprile 2017
Si chiamava Ilaria Alpi Dal 20 marzo 1994 si cerca (inutilmente) di capire chi l’abbia uccisa. Lei era una giovane giornalista della Rai che indagava sui traffici di rifiuti tossici e armi tra la Somalia e l’Italia. Il 19 ottobre 2016 l’unico imputato per quell’omicidio è stato assolto, dopo aver trascorso in carcere 16 anni. Questa bruttissima storia di depistaggi e bugie di Stato non riesce a trovare la parola fine. Persone che conosco Personaggi e luoghi con gli occhi di Gianni Minà D omenica 20 marzo 1994. La notizia dell’eccidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin mi arrivò dietro le quinte del «concertone», l’evento orga- nizzato davanti la Basilica di San Giovanni in La- terano dalle forze progressiste che si preparavano alla consultazione elettorale della settimana seguente. Quella notizia - un assassinio apparentemente senza senso, ma legato alla piaga della mala cooperazione ita- liana con il continente africano - sembrò un segnale sini- stro per il nostro paese. Non conoscevo personalmente Ilaria e l’operatore Hrova- tin. Avevo già apprezzato, però, il lavoro della Alpi che con molta sensibilità raccontava il mondo islamico. Come fanno i giornalisti di razza, aveva impiegato il suo tempo per laurearsi in lingua araba all’Università del Cairo invece di fare subito la cronista embedded su un tank o su un ca- mion di uno dei tanti eserciti di occupazione dell’epoca. La comunicazione, però, è un magistero complicato. Non ero sicuro che una piazza traboccante di mezzo milione di ragazzi avrebbe saputo adeguare i propri umori alla tri- stezza improvvisa che l’assassinio di due connazionali im- pegnati nella ricerca della verità sui traffici di rifiuti tossici e di armi nell’ambito della nostra malefica «coopera- zione» con la Somalia, avrebbe imposto. Così presi per mano Piero Pelù, il leader dei Litfiba, e gli chiesi di uscire con me sul palco, non per cantare, ma per commemorare il coraggio di Ilaria e Miran. Pelù capì il momento. Uscimmo e io detti la notizia tutta d’un fiato. Sulla piazza calò un silenzio assordante. Allora chiesi di ricordare con un gesto qualunque il sacrificio di due giornalisti che non subivano l’informazione acriticamente, ma andavano a cercare la verità anche quando era scabrosa, nei posti dove si poteva trovare e documentare. Per quei due colle- ghi che non avevano tradito il loro mestiere, come è sem- pre più di moda in un universo informativo in cui l’appa- renza, l’interesse del più forte, è ormai più importante della realtà, piazza San Giovanni rispose all’invito con un applauso lunghissimo e commovente. Dopo pochi giorni le salme di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin tornarono in Italia, accompagnati subito dalle bugie di Stato, che Luciana e Giorgio, gli intrepidi genitori di Ilaria, dovettero immediatamente imparare a decifrare per dar corpo a quello che sarebbe diventato il loro unico obiet- tivo nella vita: la verità sulla morte della figlia. I n questi anni, le istituzioni non li hanno molto aiutati. Per chiarire questo vero e proprio scandalo politico hanno lavorato di più alcuni colleghi, come Maurizio Torrealta, e tre giornalisti di Famiglia Cristiana come Bar- bara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari, un’in- domabile parlamentare di quello che allora era il Pds, Ma- riangela Gritta Grainer, e un avvocato di incrollabile etica, Domenico D’Amati, capace di costringere il mondo poli- tico a istruire una Commissione parlamentare sul caso Alpi (anche se ben presto fallita soprattutto a causa del suo presidente, l’avvocato Carlo Taormina) e di svegliare, più volte, dal suo torpore la Procura di Roma, non a caso soprannominata il «Porto delle nebbie». In verità un magistrato, Giuseppe Pititto, era inizialmente arrivato vicino a una ricostruzione credibile dei fatti e di alcune responsabilità. Dal ruolo ambiguo svolto dal faccendiere italiano Gian- carlo Marocchino, all’inefficacia degli agenti dei servizi se- greti italiani, una dozzina, che lavoravano all’epoca in So- malia e che avevano segnalato al loro capo, il colonnello Luca Raiola Pescarini, il pericolo che correvano i due gior- nalisti del Tg3 in cerca di prove sui traffici illegali di rifiuti tossici e armi tra la Toscana e la Somalia. Il Pm Pititto fu però subito esautorato dall’indagine con la scusa «di aver creato un clima di mancanza di lealtà e spirito di collabo- razione nei rapporti con il procuratore di Roma». Anni dopo, nel processo svoltosi a Roma contro Omar Ha- shi Hassan - uno dei presunti componenti del commando da cui sarebbe uscito quel giorno a Mogadiscio il killer che freddò, con un colpo alla nuca, Ilaria e Miran - proprio il colonnello Luca Raiola Pescarini avrebbe rischiato l’incri- minazione per falsa testimonianza. Questo per ricordare quale è stato il clima che, fin dall’inizio, ha accompagnato il tentativo di far luce su questa scabrosa vicenda. Una storiaccia. Perché l’esecuzione di Ilaria e Miran fu ri- chiesta, ormai è più che mai palese, proprio dall’Italia, dove c’era una società che amministrava, come qualcosa di personale, il traffico di cinque navi per la pesca, donate dal governo italiano al tempo di Craxi al dittatore somalo Siad Barre. Questa piccola flotta, invece di frequentare i porti del commercio ittico, toccava sistematicamente quelli in cui veniva praticato, più o meno palesemente, il traffico d’armi. Forse con la copertura dei nostri servizi di intelligence . APRILE2017 MC 81
RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=