Missioni Consolata - Dicembre 2016

DICEMBRE 2016 MC 79 Persone che conosco Personaggi e luoghi con gli occhi di Gianni Minà donne che portavano come lei il delantal , un grembiule colorato segno della loro dignità e legame con la loro edu- cazione e poi molte adolescenti, a piedi nudi, con un bam- bino al seno, e altre, giovanissime, con un fratellino sulla spalla o sul fianco legato con fasce coloratissime. I ragazzi vestivano con meno timidezza e avevano jeans, scarpe da ginnastica e atteggiamenti più vicini ai coetanei messicani. I vecchi, invece, erano meno numerosi, con i loro scavati profili maya e l’abitudine a osservare senza dire una pa- rola. «Non si diventa vecchi in America Latina» ha scritto, non a caso, un poeta di quelle parti. Per gli spietati militari del Guatemala, il premio Nobel a una indigena era stato un colpo durissimo, una notizia ac- colta con malcelato disagio. Il presidente dell’epoca, Jorge Serrano, l’aveva ricevuta al suo ritorno, dopo l’esilio mes- sicano, con cortese freddezza, quasi redarguendola per- ché non creasse polemiche. «Una volta io, cristiana e cre- dente - mi aveva confessato Rigoberta - venivo accusata di essere simpatizzante del comunismo, poi quando il co- munismo si è dissolto, l’accusa è diventata quella di es- sere vicina alla guerriglia. La tecnica dei militari di casa mia, aiutata dagli istruttori israeliani, argentini e norda- mericani, ricorda quella della mafia: quando non è possi- bile eliminare gli ostacoli rispettando le leggi, bisogna ten- tare di criminalizzare l’avversario. Adesso, per esempio, affermano che io voglio mettermi in politica e diventare presidente della Repubblica». Aveva concluso sorridendo. D i tutte le battaglie che ha sostenuto negli anni, quella politica è stata la più azzardata. In due occa- sioni (nel 2007 e nel 2011, sempre ottenendo poco più del 3% dei voti, ndr ) la sua candidatura alla Presi- denza guatemalteca non ha avuto esito. È sorprendente e un po’ amaro per il prezzo che ha dovuto pagare la sua fa- miglia sterminata dai militari e per le lotte da lei combat- tute per i diritti dei fratelli maya e di tanti latinoamericani intrepidi e sognatori. Ma so che un giorno o l’altro la tro- verò ancora una volta in prima linea per difendere le aspi- razioni di tutti, come ha fatto a New York l’11 settembre del 2001 quando l’hanno vista arrivare per prima all’Onu per offrire, se fosse stato necessario, il suo aiuto. La ricordo in un pulmino zeppo di amici (Lula, Eduardo Ga- leano, Frei Betto, Dante Liano) che la accom- pagnavano in un giro culminato in una festa dell’Unità a Modena, dove gli organizzatori, scettici sul successo della presentazione del libro-denuncia Guatemala nunca mas , vole- vano cambiare il luogo della conferenza cre- dendo che sarebbe andata deserta. Gli spet- tatori invece gremirono la sala. Tutti felici di premiare la caparbietà di Rigoberta e con lei tutti concordi nel non rinunciare ai propri ideali. Basta aspettare e non farsi ingannare dai bagliori della politica. Gianni Minà I n America Latina, ci sono figure profetiche che da sole spiegano e rappresentano il riscatto sociale di quel continente ancora oggi saccheggiato, ma non più com- pletamente in balia delle nazioni occidentali. Una di queste è stata ed è Rigoberta Menchú, indigena maya del Quiché guatemalteco, che nel 1992, 500 anni dopo la «conquista» dell’America, la cosiddetta «scoperta» del Nuovo Mondo, fu insignita, per la sua dedizione alla causa dei presunti sconfitti (raccontata anche nella sua autobio- grafia Me llamo Rigoberta Menchú , ndr ), del Nobel per la Pace. Proprio in quel lontano 1992 io avevo seguito Rigo- berta Menchú in uno dei suoi tanti viaggi di speranza in aiuto al suo popolo. Con la generosità che la contraddi- stingue, Rigoberta aveva deciso di accompagnare il viag- gio di ritorno di alcune migliaia di esuli della sua bellissima e martoriata terra, rifugiati in Messico o in altre terre del Centro America, nuovamente fiduciosi nella pace. Pur- troppo quello non sarebbe stato il viaggio definitivo di ri- torno a casa, né la fine di violenze, torture e desapareci- dos (oltre 55mila vittime, secondo il rapporto Remhi, ndr ) ma avrebbe rappresentato comunque l’inizio di una sta- gione di accordi di pace (firmata nel dicembre 1996, ndr ) tra popolazioni autoctone e militari, pur se spesso violati o non rispettati. Era una sera di fine anno. Al confine con lo stato di Campeche, uno dei tre dello Yucatan messicano, erano venuti a riceverla i ragazzi degli accampamenti limi- trofi cavalcando rudimentali tricicli o risciò a pedali in- sieme a Blanche Petrich, una giornalista messicana che da tempo aveva sposato la causa degli indios guatemaltechi. L’unica luce per inquadrare questo tenerissimo benvenuto era stata il flash della cinepresa della mia troupe. Rigo- berta Menchú, all’epoca 33enne, aveva scelto di trascor- rere gli ultimi giorni di quel 1992 nei campi dei rifugiati del suo paese in Messico quasi come un esorcismo, sicura che le sofferenze del suo popolo stessero per finire. Q uella sera c’erano fratelli indigeni di tutte le etnie - Quiche, Kekchi, Kaqchikel, Mam, Tzutuhiles, Ixil, Kanjobal -, ai quali lei non si era stancata di predi- care l’unità nella diversità e una vita che non rinnegasse i miti maya, ma fosse capace di conciliarli con una società solidale, laica, multietnica e pluralista. La figlia di Vicente, il catechista bruciato vivo nel 1980 nell’ambasciata di Spagna della capi- tale guatemalteca dalla repressione di un potere militare feroce, ci aveva insegnato, inoltre, a non disperare mai, come le aveva insegnato a sua volta sua madre Juana, comadrona (levatrice) nella sua terra millenaria, dove era stata torturata e uccisa. Quella sera aveva aspettato il nuovo anno ballando il son al suono delle marimbe , mentre, attorno all’accam- pamento di Quetzal, facevano festa, con divertita compostezza, giovani RIGOBERTA, IL RISCATTO MAYA © Paolo Moiola

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