Missioni Consolata - Novembre 2016

58 MC NOVEMBRE 2016 I Perdenti I sovietici furono molto abili nel presentarsi come normalizzatori dello status quo ricordando al mondo intero che le decisioni prese dai grandi alla conferenza di Yalta non potevano essere messe in discussione. Doveva prevalere la dottrina delle due superpotenze che controllavano le loro rispettive aree mondiali di influenza. I funerali di Jan Palach, nonostante gli impedi- menti messi in atto dal regime cecoslovacco e dalle truppe sovietiche, furono una grande manife- stazione di dolore per tutto il paese. La salma del giovane studente di Praga fu esposta all’Università Carlo IV, dove per due giorni ininterrottamente convenne una folla sterminata proveniente da tutte le province. La bara fu portata al cimitero, lì il decano della facoltà di filosofia pronunciò un fermo discorso davanti al feretro: «La Cecoslovac- chia sarà un paese democratico soltanto quando il sacrificio di un suo figlio non sarà più necessario». Sulla facciata di un teatro, ove passò il corteo fu- nebre, venne scritta a grandi lettere la famosis- sima frase di Bertold Brecht: «Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi». Al funerale partecipò una folla immensa di persone, studenti, operai, il corpo accademico universitario al completo, gente umile e semplice giunta nella capitale per vivere da pro- tagonista - nel ricordo del sacrificio di Jan Palach - una giornata memorabile della storia del loro paese. Don Mario Bandera l’Armata Rossa che era entrata nella mia terra per liberarla dal giogo nazista, si trovava catapultata dalla padella alla brace. Eppure la Cecoslovacchia faceva parte di quel mondo culturale mitteleuropeo che aveva sa- puto dare nei secoli un’impronta originale alla storia del nostro continente. Con gli accordi di Yalta, nella spartizione del mondo, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale collocarono la Cecoslovacchia tra i paesi gravitanti nell’orbita dell’Urss. La cortina di ferro, da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, divideva in due l’Europa. All’ospedale, mentre ti prestavano le prime cure riservate ai grandi ustionati, trovarono una lettera tutta bruciacchiata, ma abbastanza leggibile, ove erano evidenziati i motivi del tuo gesto, cosa avevi scritto? Su dei fogli di un quaderno a righe avevo scritto: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della dispera- zione e della rassegnazione abbiamo deciso di espri- mere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volon- tari pronti a immolarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio di- ritto scrivere la prima lettera ed essere la prima tor- cia umana. Se le nostre richieste non saranno esau- dite entro cinque giorni un’altra torcia si infiam- merà». In quel periodo anche parecchi monaci buddisti si erano dati fuoco per protestare contro l’in- terminabile guerra del Vietnam. Il loro esempio ti ha ispirato? Sì, è vero, all’interno dell’Università Carlo IV di Praga parecchi miei coetanei non erano rimasti in- sensibili al loro martirio. Se i monaci buddisti si sa- crificavano dandosi fuoco per richiamare l’atten- zione del mondo sulla tragedia che il loro paese stava vivendo, in un certo qual modo bisognava che pure qualcuno in Europa si sacrificasse per richia- mare l’attenzione su quello che la dittatura sovie- tica stava facendo al mio paese. Il tuo sacrificio molti lo accostano al suicidio di Jan Masaryk, figlio del fondatore della Repub- blica, trovato morto ai piedi della finestra da cui si era gettato (o era stato scaraventato?). Purtroppo la storia del mio paese è ricca di tragedie simili, dalle defenestrazioni di Praga contro gli hus- siti, a quella del 1618 che scatenò la Guerra dei Trent’anni, a quella dell’epoca moderna, messa in atto contro Jan Masaryk nel 1948, alla vigilia del colpo di stato attuato dai comunisti per impadro- nirsi del potere. Come te, altri giovani si immolarono per la li- bertà, ma l’implacabile macchina di occupa- zione sovietica non si fermò di fronte a queste tragedie.

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