Missioni Consolata - Agosto/Settembre 2016

48 MC AGOSTO-SETTEMBRE 2016 quando Téta è caduta nel corridoio e ha perso i sensi. Guardavo la tivù e non me ne sono accorta fino a che la gola non mi ha portato verso la cucina per chiedere un arous jibneh . Il corpo fermo a terra che ho trovato a metà strada, con un rivolo di san- gue che sgorgava dal labbro, non mi sembrava reale: forte dei miei undici anni, avevo la certezza che Téta non potesse cadere così. Invece, da quel momento, cominciò a farlo: cadere o scomparire per qualche ora o giorno, per tornare poi un bel mattino a casa, a sorpresa. Ho memorie sfocate della volta in cui papà la salvò dall’arresto cardiaco notturno davanti alla tivù: guardavano i giochi a premi insieme e per un lasso di tempo indefinito nessuno si accorse che Téta non rideva più e che il suo non era il solito afflosciarsi in uno stanco ri- poso serale. Papà, quando capì che il cuore di Téta aveva smesso di funzionare, corse a farle il mas- saggio cardiaco, poi arrivò l’ambulanza, la portò via e, non appena papà appurò che Téta si fosse davvero ripresa, le lanciò sette otto accidenti in dialetto libanese. Io quella notte dormivo da ore nella mia stanzetta; credo di aver dormito per giorni o di aver vissuto in una sorta di infantile tor- pore: al mio risveglio, Téta era sempre lì, punto fisso della mia quotidianità a Zouk. Ricordo congelato è la frase rituale, ripetuta ogni sera: Qu’est-ce que Vous voulez manger demain ? Me l’ha sempre chiesto così, Téta. A me sembrava di stare in un hotel di lusso e lo zio di Boston la pren- deva in giro per quella sua ostinazione a dare del voi anche ai familiari. Téta sorrideva con aria fur- betta e raccontava per l’ennesima volta di quel francese scolastico imparato fra lezioni di econo- mia domestica e di pittura, in ambienti gerarchici in cui non esisteva che si potesse dare del tu a qualcuno. Per Téta la confidenza in francese non aveva un corrispondente linguistico e per me sen- tirla darmi del voi è sempre stato come prendere parte ad un banchetto fra ambasciatori. Io, amba- sciatrice d’Italia, in visita a lei, rappresentante del Libano. L’autorevolezza e l’eleganza dell’alto ceto sicuramente l’ha sempre avuta Téta, più di me. Bastava un gesto e Hala capiva cosa avrebbe do- vuto cucinare l’indomani, sapeva senza bisogno di dirlo che non bisognava comprare i lahmi b’ajin senza fornire al fornaio l’impasto di carne che lei stessa preparava, perché era l’unico di cui si fi- dasse. A ndare in Libano era quindi per dei versi come gettarsi a capofitto nel set di uno di quei film talmente ben riusciti che sem- brano realtà, tanta è la naturalezza: io non mi ac- corgevo di niente, ventenne distratta, ma lei coor- dinava ogni minuscolo evento che prendeva vita fra le mura domestiche. Sapevo che al mio arrivo avrei puntualmente trovato lo shmandour e che a nulla sarebbe servito offendere l’orgoglio di Téta dicendo che con gli anni qualcosa nel mio gusto era cambiato e che lo shmandour non mi piaceva più: sapevo che la cucchiaiata di shmandour , al- meno per fare il gesto, dovevo ingoiarla con estremo riconoscimento. Perché il primo latte della vacca incinta, ingrediente principale, è merce rara e Téta diffondeva ai paesi vicini la no- tizia del mio arrivo già settimane prima, affinché il primissimo latte della vacca partoriente finisse fra le sue mani e potesse avviare i processi di pre- parazione di quella primizia dolce. Tanto più lo shmandour smetteva di piacermi, quanto più au- mentava la gratitudine per il gesto fedele di Téta nei confronti di me, figliola prodiga. A volte mi è bastato fissare un piatto con gola per trovare Hala affianco a porgermelo: subito era chiaro che il mio sguardo fosse stato intercettato da Téta; un po’ mi sentivo oppressa o presa in giro, poi mi dicevo che in una famiglia di maghi le cose non potevano che andare così. Una famiglia di maghi: così amava descriverla nonno, prima di morire. Il prozio mago era il capostipite, poi, con l’avanzare delle generazioni, quella magia si è ridi- mensionata e si è fatta semplice filosofia. Ma chissà che poi non sia un po’ la stessa cosa. Ricordo congelato è lo sguardo triste di Téta men- tre guarda la tivù e le si spezza il cuore di fronte alla morte di palestinesi e israeliani – ya kharam , diceva di entrambi. Io penso a quanto quello stesso conflitto è stato strumentalizzato nell’altra parte del mondo, la mia, riducendosi a rigido gioco di fazioni a distanza di sicurezza. Ricordo congelato è Téta che, mentre vado in pi- scina, mi ferma per darmi un bacio sulla guancia e dirmi serissima « Attention de tomber dans l’eau ». Ogni volta, fino all’ultimo, ho sospettato che l’età le giocasse un brutto scherzo o la facesse allar- mare per pericoli inesistenti, ma ogni volta era in- vece lei a prendersi gioco di me con ironia sottile. Questa frase, questo francese sbagliato e macche- ronico, era la frase di complicità ridanciana con cui due generazioni si danno la staffetta - quasi un gioco di ruoli - e a quella più antica non resta altro che dare raccomandazioni assurde alla più gio- vane, pur con piena coscienza della loro assurdità. A destra : piatto con zucchini farciti, detti mehshi cousa .

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=