Missioni Consolata - Luglio 2016

raccolti in compound perimetrati, ma drammatica- mente vuoti, qualcuno con l’intonaco che già si sgretola. Questa parabola così chiara ci trasmette immedia- tamente l’idea di come l’inquinamento, in Cina, sia legato indissolubilmente ad almeno altri tre pro- blemi: il lavoro, cioè i minatori, gli operai dell’ac- ciaieria, i muratori della città; l’eccesso di offerta industriale, cioè quegli 800 milioni - un miliardo di tonnellate di acciaio che ogni anno la Cina produce, metà del quantitativo globale; l’urbanizzazione, cioè la città. Detto altrimenti: non si può parlare di ambiente se non si parla anche di economia, lavoro, società e, last but not least , politica. La crisi di un modello di successo Il modello economico lanciato da Deng Xiaoping a fine anni Settanta non regge più. Si basava su un alto tasso di investimenti in Cina - prima stranieri, poi anche cinesi - che hanno per- messo di creare fabbriche, delocalizzare impianti, aprire succursali. In definitiva, di trasferire nel paese asiatico la «fabbrica del mondo». L’industria- lizzazione degli ultimi trent’anni si è concentrata soprattutto sul delta del Fiume delle Perle, cioè a Shenzhen, prima «zona economica speciale», at- traente per le agevolazioni fiscali, nonché per il basso costo del lavoro e dei terreni. L’intera provin- cia del Guangdong è diventata, da allora, un enorme conglomerato industriale, che oltre a Shenzhen ha inglobato Dongguan, poco più a Nord, Guangzhou, la vecchia Canton, Foshan, Zhuhai, Zhongshan. Oggi è la provincia più ricca della Cina. Il nuovo modello si innestava sulla vecchia indu- strializzazione, quella di tipo sovietico risalente agli anni Cinquanta-Sessanta, che aveva invece come epicentro la «cintura della ruggine» del Nord della Cina. Erano, queste, le vecchie industrie pesanti di stato che subirono una prima ristrutturazione tra il 1998 e il 2003. Un «bagno di sangue» che portò al li- cenziamento di 28 milioni di lavoratori, con costi a carico dello stato di circa 73 miliardi di yuan (quasi 10 miliardi di euro al cambio odierno) in fondi di ri- collocamento. Il binomio costituito da piccole industrie private o semiprivate a capitale misto e grandi industrie di stato ha comunque trainato la Cina, emancipato 800 milioni di persone dalla povertà e prodotto il ceto medio cinese, che a sua volta ha preso a spen- dere per quell’accoppiata «casa-macchina» che connota tutta la piccola borghesia planetaria. Nel frattempo, i contadini espropriati dai terreni adibiti a uso industriale o residenziale si riversa- vano nelle maggiori metropoli a caccia di opportu- nità e di lavoro. Sono stati loro la carne umana di- vorata dalla macchina del progresso perché un si- stema tipicamente cinese che legava diritti e ser- vizi minimi al luogo di residenza - chiamato hukou - li esponeva allo sfruttamento e ne abbatteva il po- tere contrattuale se lontani da casa. Oggi è necessaria un’altra ristrutturazione perché le imprese di stato sono sempre tante - circa 150mila - e di solito corrispondono più a criteri poli- tico/affaristici - l’arricchimento delle consorterie che si annidano al loro interno e la stabilità sociale garantita dal fatto che danno lavoro - che di effi- cienza. Il fenomeno è quello delle «imprese zom- bie», tenute in vita per ragioni di opportunità, ma irragionevoli da un punto di vista economico. Zom- bie che continuano a inquinare. © Xu congjun nt / maginechina / AFP Pagina seguente : operaie al lavoro in una fabbrica di giocattoli a Tangxia, provincia di Guangdong. Qui sotto : fumi di una centrale a carbone a Shuangyashan; da alcuni anni il governo cinese ha ini- ziato programmi di dismissione delle centrali a carbone.

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