Missioni Consolata - Luglio 2016
LUGLIO 2016 MC 33 Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine «giustizialismo». Un tempo la parola era del tutto sconosciuta nel lessico giudiziario. Cominciò a farne parte quando, con una furbata, qualcuno pensò di escogitare (con precise finalità mediatiche) un qualche modo per suggerire l’idea di un uso scorretto della giu- stizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata. Introducendo nel contempo conce- zioni perverse del «garantismo»: un neo-garantismo «strumentale», diretto a depotenziare la magistratura, che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico; insieme ad un garantismo «selettivo», che gradua le regole in base allo «status» dell’imputato. E francamente dispiace constatare che l’attuale presi- dente del Consiglio abbia riesumato - addirittura inter- venendo in Senato (il 19 aprile 2016) - proprio questa parola, parlando, con riferimento agli ultimi 25 anni, di pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo. Dalla falsa neutralità alla reale indipendenza Altra parola usata spesso a sproposito è quella con cui si accusa la magistratura di «politicizzazione». È facile con- statare (basta un buon libro di storia) che fino agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la commistione tra magistratura e luoghi del potere politico era la regola. Ma veniva inabissata sotto il dogma della apoliticità di giudici e giurisdizione. Era l’epoca in cui, al riparo di tale dogma, il procuratore generale della Cassazione definiva gli infortuni sul lavoro «una fatalità», gran parte della magistratura siciliana era attestata sulla tesi che «la ma- fia non esiste», la Procura della Repubblica di Roma era allegramente (e non per caso) chiamata «porto delle nebbie», i vertici della magistratura partecipavano a ce- rimonie in cui imprenditori inquisiti e politici corrotti ve- nivano insigniti delle massime onorificenze della Repub- blica e poteva anche accadere che un Procuratore gene- rale non disdegnasse di rilasciare affidavit per il suo amico Sindona. La magistratura - per usare parole di Luigi Ferrajoli - era «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologica- mente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili». Questa, pur con molte eccezioni (di giudici e pubblici ministeri capaci di essere in- dipendenti e imparziali) era la li- nea di tendenza prevalente in magistratura, ed era una li- nea di politicizzazione di fatto. «case» e gli stessi «alberghi». Tutto come prima, anzi: si direbbe che spesso gli imprevisti facciano… curriculum. Davigo ha semplicemente riproposto la questione del rapporto tra etica e politica. Ma, evidentemente, il vec- chio rilievo machiavellico secondo cui gli stati non si go- vernano con i pater noster gode ancora, da noi, di ampia considerazione. Mentre dovrebbe essere pacifico che la corruzione è priva di ogni giustificazione e che corrotti e collusi restano tali a prescindere dal loro status di uo- mini di successo e di potere. La crociata antigiudiziaria e una giustizia «à la carte» Circa 25 anni fa (era il 1992, ndr ) la stagione di «Mani pulite» e delle inchieste sui rapporti fra mafia e politica segnò - per il nostro paese - un forte recupero di legalità. Per un po’ di tempo sembrò che potesse prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Le inchieste su Mani pulite e su Mafiopoli avevano innescato un sen- timento di fiduciosa aspettativa nei confronti della giu- stizia e dei giudici (talora persino sopra le righe, come quando ci furono addirittura toni da tifo calcistico). Questa «luna di miele» è durata poco, perché la novità di una magistratura che - sia pure con tutti i suoi limiti - cercava finalmente di applicare la legge anche ai «po- tenti» non poteva lasciare questi ultimi indifferenti. E di- fatti i «potenti» hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ecco dun- que lo scatenarsi, ormai da circa 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali. Invero, non solo in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio del- l’azione penale nei confronti di imputati «eccellenti» ab- bia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (spesso in- dicati «tout court» come avversari politici). Con il dila- gare dell’idea, terribilmente italiana, di una giustizia «à la carte» valida per gli altri ma mai per sé. E con l’irresi- stibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unica- mente in base all’utilità per sé e per la propria cordata. Oltretutto, la corruzione «sistemica» che Mani pulite aveva evidenziato avrebbe dovuto offrire materiale di conoscenza prezioso, utilissimo per produrre nuove forme di contrasto efficace (controlli preventivi e misure repressive). Invece, niente di tutto questo è accaduto. Sicché la corruzione inesorabilmente ha finito per ri- prendere vigore. Per impedirlo, occorrevano interventi che la rendessero non più conveniente: un obiettivo an- cora da realizzare. Col risultato che quel recupero di legalità in atto agli inizi degli anni Novanta è stato costretto a percorrere strade sempre più impervie. E la questione morale, che l’esten- dersi del controllo di legalità stava rilanciando, dalla poli- tica è stata relegata in soffitta. Perché mettere sotto ac- cusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro un evidente vantaggio: una minore fatica per riproporre le pratiche di sempre, più spazio e più tempo per ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle in- chieste. © Rovera Rosa - Agência Brasil # A destra : Pier Camillo Davigo durante un dibattito a San Paolo, Brasile, nel marzo 2016. MC RUBRICHE
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