Missioni Consolata - Luglio 2016
di Gigi Anataloni EDITORIALE LUGLIO 2016 MC 3 Ai lettori ORME SULL’ ACQUA I moli galleggianti di Christo, nome d’arte di Vladimirov Yavachev, bulgaro naturalizzato statuni- tense, sul Lago d’Iseo forse saranno già spariti quando leggerete queste righe, visto che il costo- sissimo show (dovrei scrivere «installazione artistica») si chiuderà il 3 luglio. L’artista ha pro- messo: «Vi farò camminare sulle acque, meglio se verrete senza scarpe; sarà una passeggiata dove sentirete le onde sotto i vostri piedi». Beato lui che può permettersi di spendere 10 milioni di tasca sua per realizzare un suo sogno di gioventù e i ben vispi amministratori che hanno colto l’occa- sione per fare pubblicità al loro lago. Fortunatamente a fine giugno quello è molto più quieto di quanto non lo fosse il Lago di Tiberiade, su cui, circa duemila anni fa, qualcuno aveva camminato du- rante una tempesta. Non sono rimaste impronte di quella prima camminata e, dicono, neanche que- st’ultima ne lascerà, visto che tutto sarà ecologicamente riciclato. Entreranno invece negli archivi della storia, o forse solo nelle memorie dei computer di casa, le migliaia di selfie che i nuovi Pietro, meno spaventati di quello contemporaneo di Gesù, avranno prodotto durante la loro esperienza epocale. Un’esperienza «da Dio». Già, perché, almeno secondo la Bibbia (Giobbe 9,8), solo Dio cammina sulle acque, non gli uomini. E il salmo 77, confermando che «Tu hai camminato tra acque profonde», aggiunge un particolare inte- ressante: «Nessuno può ritrovare le tue orme». Dio cammina sulle acque e non lascia traccia del suo passaggio. La superficie dell’acqua non le conserva. Non voglio però entrare nel merito dell’arte di Christo, anche perché sono troppo profano in materia e forse anche un po’ dissacratore. Ho visto le foto di un’altra sua opera in allestimento in Francia. Si tratta della «Mastaba», una piramide di barili di petrolio coloratissimi ammucchiati in bell’ordine in un museo della Provenza. L’immagine mi ha riportato lontani ricordi di centinaia e centinaia di barili dai colori meno sgargianti ma tutti ben ammucchiati uno sull’altro in file ordinate, pronti per essere sepolti per sempre sotto una superstrada in costruzione in Africa. Qualcuno mi ha assicurato che erano vuoti e innocui, interrati là sotto per comodità ed economia. Chissà perché mi è sempre rima- sto il dubbio che vuoti proprio non fossero. Da quel ricordo di barili interrati il mio pensiero è poi andato a Maralal. Con una vena di populismo mi sono chiesto cosa avrebbe fatto con 10 milioni il barbuto vescovo di Maralal che conosce l’odore delle pecore. Forse avrebbe potuto gestire senza angoscia per almeno una decina di anni l’ospedale di Wamba, nella terra dei Samburu in Kenya, là dove i colori artificiali di un maestro dell’arte non servono, perché l’ospedale è circondato dalla bellezza ineguagliabile di splendide siepi di buganvillea sempre in fiore. Q uando vado ad ammirare opere d’arte come quelle di Christo, mi rendo conto di essere un privilegiato, uno dei pochi che può godere di una libertà e di un benessere che la maggio- ranza degli uomini non hanno. In questo numero della rivista parliamo ampiamente della realtà dell’ubanizzazione massiccia che sta sconvolgendo la vita di interi popoli in Africa, Asia e America Latina. Queste megalopoli hanno un «ventre» di privilegio dove pochi assorbono tutto: servizi, bellezza, cibo, strade, sicurezza, cure mediche, arte, musica, teatri, stadi, palestre e an- che magnifiche chiese. Attorno è un immenso serbatoio di manodopera a buon mercato che soprav- vive arrangiandosi o vendendosi in un ambiente senza strade, servizi, scuole, acqua, case, sicurezza e arte (e tanto altro!). Chi vive nel «ventre» spesso manco si rende conto della sua situazione di privi- legiato e di sfruttatore. Forse capita anche a noi, pure se non viviamo in megalopoli, ma in belle cit- tadine e paesi italiani ad alta intensità d’arte. Sono andato a rifare il test delle «orme di schiavitù» ( slaveryfootprint.org ) che avevo già fatto cinque anni fa. Allora risultava che avevo ben 17 schiavi al mio servizio. Oggi sono peggiorato: ne avrei addi- rittura 23! Dai jeans dal Bangladesh allo smartphone che va a coltan, dal gas libico per il riscalda- mento o il condizionatore ai computer che pur uso per lavoro e non per gioco... E si ritorna alle «orme». Orme che scompaiono sull’acqua, orme di arte, orme di schiavitù... orme di tanti - missionari, volontari e uomini e donne dal cuore grande - che scelgono di essere con chi è sfruttato dall’avido ventre del mondo, rivelando così l’altra orma, quella invisibile ma vitale di Dio che non ha mai perso la fiducia nell’uomo.
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