Missioni Consolata - Maggio 2016
ECUADOR 52 MC MAGGIO 2016 In ricordo di monsignor Leonidas Proaño La rivoluzione incompresa del vescovo con il poncho Mons. Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, è stato prima di tutto un grande uomo d’azione («osservare, analizzare, agire») e poi un precursore della teologia della liberazione. Ne ab- biamo parlato con Nidia Arrobo Rodas, ieri sua instancabile collaboratrice, oggi anima della «Fundación Pueblo indio», da lui voluta nel suo testamento. Q uito. È morto in povertà nel 1988. Quasi avesse voluto condividere fino all’ultimo la condizione di coloro con i quali e per i quali aveva lottato per tutta la sua esistenza. Mons. Leonidas Proaño è stato chiamato in tanti modi: vescovo dei po- veri, vescovo degli indios, vescovo rosso e comunista. A parlarcene con partecipazione ed entusiasmo è Nidia Arrobo Rodas, una signora elegante e gentile, nata a Loja, terza di undici fratelli. Una laurea in economia con specializzazioni negli Stati Uniti e a Barcellona, ma una vita trascorsa accanto a mons. Proaño, prima come col- laboratrice, poi come responsabile della «Fundación Pueblo indio del Ecuador» da lui voluta nel suo testa- mento. Nella Fondazione tutto ricorda il vescovo e il suo rap- porto con gli indigeni. Nidia si siede davanti a una foto- grafia che lo ritrae con il poncho indio. «Lo portava non tanto come indumento, ma come elemento identitario. Per dire “sono uno di voi”». Chi è stato?, le domandiamo. «Un profeta e un padre della chiesa, non soltanto latinaomericana. Egli fu padre conciliare, ma già nel 1954, ben prima cioè del Concilio Vaticano II, egli era un precur- sore. E, in coerenza con il suo per- corso, alla fine del Concilio, con al- tri 40 padri egli firmò il cosiddetto “Patto delle Catacombe”, in cui si ratificava l’opzione preferenziale per i poveri. Mons. Proaño sta dunque alla base della nascita della teologia della liberazione. Tanto che il primo libro di quella corrente teologica, il saggio di G stavo Gutiérrez, riprende esattamente la sua prassi». N ato nel 1910 in un’umile famiglia contadina, mons. Proaño conosce la povertà e, in particolare, la po- vertà degli indigeni, già nell’infanzia. A Imbabura, la sua provincia, vivono i Quichua (Kichwa), una delle 14 etnie dell’Ecuador. «Egli raccontava - spiega Nidia - che ancora da bambino la madre e il padre gli avevano inse- gnato l’amore verso gli indigeni: “ Tanto mi padre como mi madre tenían un grande aprecio a los indígenas ”, scrisse. Potremmo dire che, a quei tempi, era un amore che nasceva dalla compassione». Divenuto sacerdote, per 18 anni opera a Ibarra, vicino al suo villaggio natio, come educatore e animatore culturale. Nel 1954, a soli 44 anni, egli viene nominato vescovo della diocesi di Rio- bamba, nella provincia di Chimborazo, dove rimane sconvolto dalla condizione degli indigeni, «sfruttati senza misericordia», scrive in una lettera. Fedele alla metodologia dell’«osservare, analizzare e agire» appresa in gioventù, mons. Proaño si mette in azione per provare a incidere su quella realtà. «Capì la necessità - racconta Nidia - di mettersi dalla parte di quell’umanità sofferente, trat- tata alla stregua di animali». A Riobamba, egli scopre che la chiesa è una dei maggiori la- tifondisti della provincia, con proprietà per migliaia di ettari. «“È una vergogna - disse -. Io non posso fare finta di niente mentre gli indios sono nella mi- seria”». Così, nel 1958, inizia a re- stituire la terra agli indigeni, su- scitando uno scandalo nazionale. «Diceva - racconta Nidia - che il suo non era un atto di carità o di filantropia, ma di mera giusti- zia». Altri gruppi indigeni co- minciano allora a chiedere la restituzione delle terre, alimentando le ire dei la- tifondisti. «Iniziarono a chiamarlo l’“indio Proaño”, a mo’ di insulto. Era conside-
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