Missioni Consolata - Maggio 2016

Dopo la seconda rivolta palestinese capeggiata da «Bar Kokba – figlio della stella», che molti identifica- rono come il Messia, l’imperatore Adriano nel 135 comminò l’espulsione definitiva degli Ebrei non solo da Gerusalemme, ma da tutta la Palestina, dando ini- zio alla transumanza perenne che fu il marchio d’infa- mia del popolo eletto. Scelto per possedere una terra «promessa», divenne il popolo senza terra, in balia di chiunque, reietti da tutti, fino ad arrivare all’apice del- l’abiezione che fu l’orrore della «Shoàh». La quale non arrivò all’improvviso come un fulmine estivo, ma fu la logica conseguenza, preparata da venti secoli di emar- ginazione, persecuzione e disprezzo, alimentati teolo- gicamente dalla Chiesa che ne aveva fatto un punto nevralgico della propria catechesi ordinaria fino all’ar- rivo del papa profeta, Giovanni XXIII, che volle modifi- care il Messale della liturgia, facendo togliere dalla preghiera del Venerdì Santo l’intercessione «pro pèrfi- dis Iudèis». Se la terra è di Dio, nessuno è proprietario Lo scopo di tutte queste prescrizioni dettagliate, oseremmo dire pignole, non è quello di creare un «istituto giuridico periodico», ma di sviluppare una teologia per la formazione del popolo: il concetto affermato dal Giubileo è che la terra, tutta la terra, è di Dio e l’uomo non ne può mai essere il proprie- tario, ma solo l’usufruttuario. In questo modo si svuotava di senso l’idea di «proprietà privata». Un esempio chiarirà meglio: se una donna era sposata a un uomo di una tribù diversa, l’eventuale eredità di una terra non poteva passare nella disponibilità proprietaria del marito, perché la terra doveva re- stare nella tribù di appartenenza. Per questo mo- tivo si tentava di sposarsi solo tra membri delle ri- spettive tribù, o addirittura all’interno della stessa cerchia parentale con enormi problemi sul piano delle malattie ereditarie. In questo modo si affer- mava che solo Dio è il creatore e l’uomo, a comin- ciare da Àdam ed Eva, è perennemente ospite prov- visorio della terra: «Mia infatti è tutta la terra … al Signore, tuo Dio, ap- partengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene … Le terre non si potranno vendere per sem- pre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Es 19,5; Dt 10,14; Lv 25,23). Questa teologia è sviluppata nel libro di Giobbe, scritto nel dopo l’esilio, in cui si narra di un israelita cui Dio ha tolto tutto. Il pio Giobbe formula il princi- pio dei riformatori e cioè che nessuno è proprieta- rio di nulla in questo mondo: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,10). Si è fatto passare questo povero Giobbe come l’uomo della pazienza, svi- lendo così il senso del libro, di grande portata so- ciale e religiosa: la relativizzazione della proprietà privata. Siamo forestieri e ospiti, non proprietari o, peggio, dominatori, ritornando così «al principio» di Genesi, quando Dio «pose Àdam nel giardino di Eden per- ché gli ubbidisse e lo ascoltasse» (Gen 1,15, testo ebraico): l’uomo è al servizio della terra, come se questa fosse sua figlia. Non ci troviamo davanti a una norma civile, ma di fronte a una professione di fede che deve stabilire il rapporto dell’uomo con il creato e la sudditanza del primo al secondo, non il contrario. È ciò che afferma Papa Francesco nell’en- ciclica «Laudato si’» con un grido di allerta all’uma- nità tutta, alla politica, all’economia perché tornino alla coscienza del «principio» e si aprano alla consa- pevolezza del limite che è il contrario del delirio di onnipotenza che sta devastando tutto il creato. Dio creatore aveva dato consistenza al creato e al- l’umanità in sette giorni, simbolici della totalità della perfezione. Ora l’Ebreo deve contare il tempo di sette anni in sette anni, poi in sette settimane di anni «perché mia è la terra», simboleggiando così che lo scorrere della storia è guidato da Dio. In que- sto modo si stabilisce un rapporto molto stretto tra Dio e il tempo: se il tempo della vita che dipende dal nutrimento della terra è scandito da Dio, si af- ferma l’antropologia teologica che l’uomo non è Dio e quindi non può pretendere di essere «onnipo- tente» come fece Àdam che, infatti, trasformò il giardino di Eden in un inferno di spine e sofferenze. Il Giubileo tutela i poveri senza riuscirvi Come abbiamo visto nelle puntate 5a e 6a, la diffe- renza tra Anno Sabbatico e Giubileo era questa: nel primo era prescritto il condono dei debiti di qual- siasi natura e la restituzione della libertà agli schiavi; col secondo si doveva, teoricamente, rien- trare in possesso della terra data in pegno per qual- siasi motivo, affinché si potesse ricostituire il patri- monio preesistente e quindi ristabilire l’assetto pro- prietario tra le tribù: ciò valeva solo nelle campa- gne, ma non nelle città, dove il principio non poteva essere applicato alle abitazioni. Comunque sia, la pratica ha fatto sì che gli ideali dell’Anno Sabbatico (condono) e del Giubileo (pro- prietà) fossero in un certo senso intercambiabili, considerata la loro natura di fondamento per una maggiore equità sociale e comunitaria che si attri- buiva direttamente alla volontà di Dio. In altri ter- mini più moderni, si direbbe una più equa distribu- zione della ricchezza e l’affermazione solenne del- l’uguaglianza di tutti davanti a Dio. Dal Giubileo è estranea ogni idea d’indulgenza, con- cetto assente nella Bibbia, e qualsiasi pratica di pel- legrinaggio come spostamento verso un luogo privi- legiato perché Giubileo e Anno Sabbatico si com- piono dovunque vi sono due Ebrei in relazione tra loro. Il pellegrinaggio, invece, ha preso il soprav- vento nel Cristianesimo, e successivamente nel Islam, con il viaggio a Gerusalemme per Cristiani e Musulmani, poi trasferito dal sultano alla Mecca per quest’ultimi. Gli Ebrei non hanno il senso del pelle- grinaggio come visita, ma l’idea del ritorno annuale a Gerusalemme, come simbolo escatologico della ri- costruzione del popolo d’Israele attorno al tempio del Signore ricostruito e quindi come fine dell’esilio e della diaspora. Ancora oggi, la sera di Pasqua, gli Ebrei, ovunque sono nel mondo, concludono la cena, con un sospiro di desiderio che si fa preghiera e anche augurio: « Hashanàh haba’à beYerushal- làyim - l’anno prossimo a Gerusalemme», auspi- MAGGIO 2016 MC 35 MC RUBRICHE

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