Missioni Consolata - Maggio 2016
MAGGIO 2016 MC 29 MC ARTICOLI cambiamento non arriva, ci de- moralizziamo e ci pare che le vie d’uscita siano inesistenti. L’antro- pologo David Graeber, in un suo saggio del 2004, invitava però a vedere nelle tante azioni quoti- diane, vicine a noi o lontane, una rivoluzione già in atto. Anzi, tante piccole rivoluzioni. E a Parigi se ne sono viste tante. Pur nella loro diversità culturale, politica ed ecologica, tutte mostravano strade alternative proprio a quei governi a cui la volontà e il corag- gio mancavano. Rappresentanti dei gruppi indi- geni dell’Isola della Tartaruga (così veniva chiamata l’America Settentrionale) hanno portato con sé testimonianze della resi- stenza nei loro territori contro le perforazioni per fracking , a causa delle quali l’acqua, la terra e l’aria sono state inquinate provocando malattie croniche ad adulti e neo- nati. In Canada, la popolazione Wet’suwet’en resiste contro la costruzione del Pacific Trails Pipe- line (Ptp), un oleodotto con- struito da Lng Canada, Shell Ca- nada Limited, Mitsubishi Corpo- ration, KoreaGas (Kogas) e Petro- china, che dovrebbe trasportare le sabbie bituminose della re- gione dell’Alberta al Pacifico, per essere poi esportate. Dal 2012 af- frontano con i loro corpi i macchi- nari che giungono per disboscare, danno il benservito a funzionari delle imprese e del governo che cercano di comprare il loro as- senso, richiedono a chiunque vo- glia entrare nei loro boschi di identificarsi e dichiarare le pro- prie intenzioni. Bloccando l’ac- cesso stradale, fermano (per il momento) un processo estrattivo altamente inquinante, e per nulla efficiente. L’accampamento, co- nosciuto ormai come Unist’ot’en yintah , sfida il governo canadese a una ridefinizione di sovranità, rivendica il legittimo diritto di dire la propria su decisioni impor- tanti. E ha ispirato Naomi Klein e altri nell’usare un nuovo termine, Blockadia , per definire resistenze fisiche, decise, coraggiose, e con- divise tra molte comunità in tutto il mondo. Resistenze a un mo- dello estrattivo e a una logica di violenza e di imposizione di una sola via di sfruttamento. Una resi- stenza che semplicemente dice «no», neanche a fronte di com- pensazioni monetarie. nale lascia ai singoli governi la possibilità di adottare misure vo- lontarie di riduzione delle emis- sioni. In pochi a Parigi hanno pre- sentato obiettivi volontari di ridu- zione ragionevoli, e si è calcolato che anche se essi venissero ri- spettati, la temperatura si alze- rebbe comunque di 3°C. Piccole rivoluzioni in atto Spesso ci aspettiamo che sia un’i- dea brillante, un’ideologia che possa spiegare tutto, una formula da applicare al mondo intero per fare una «rivoluzione» a cam- biare le cose per raggiungere un mondo migliore. Se però poi il # A sinistra : dopo il summit di Copenhagen del 2009, il movimento globale per la giustizia ambientale unanimamente spinse per il riconoscimento del de- bito climatico. Il concetto venne definito un anno dopo, in Bolivia, come «il sovrappiù di consumo da parte dei paesi industrializzati rispetto alla capacità dell’atmosfera terrestre e del sistema climatico di as- sorbire gas a effetto serra che ha provocato un debito nei confronti dei paesi meno industrializzati e della Madre Terra». Questa mappa mostra l’ineguale di- stribuzione delle responsabilità del cambio climatico a livello globale. La mappa interattiva si può navi- gare su: http://ejatlas.org/featured/climate-debt . Victor Barro - Friends of the Earth International/Flickr.com peoplesworld/Flickr.com
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