Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2016

GENNAIO-FEBBRAIO 2016 MC 51 «Per definizione, la disuguaglianza dei redditi, in ogni società, è il risultato della somma delle due componenti: quella dei redditi da lavoro e quella dei redditi da capitale. Più è disuguale la misura in cui si spartisce ciascuna componente, più è alta la dis- uguaglianza finale. In assoluto, potremmo anche immaginare società in cui la disuguaglianza deter- minata dal lavoro sia molto alta e la disuguaglianza determinata dal capitale sia molto più bassa, op- pure società in cui sia vero il contrario, op- pure, infine, società in cui la disuguaglianza sia molto alta in entrambe le componenti o, viceversa, sia molto alta l’uguaglianza» (id. pp. 371-372). Di norma, le disuguaglianze determinate dal lavoro appaiono in qualche modo disugua- glianze prestabilite, modulate, quasi ragione- voli. Mentre, al confronto, le disuguaglianze determinate dal capitale sono sempre dis- uguaglianze estreme. «Per esempio, per quanto riguarda la disugua- glianza determinata dal lavoro, si rileva che nelle società più ugualitarie, come i paesi scan- dinavi negli anni settanta-ottanta del Nove- cento (da allora, nell’Europa del Nord, le dis- uguaglianze sono leggermente cresciute, anche se i paesi scandinavi continuano a essere i meno disuguali), la distribuzione si presenta più o meno nel seguente modo. Se consideriamo l’insieme della popolazione adulta, la fascia di popolazione che percepisce i redditi da lavoro più alti (il 10%) perce- pisce poco più del 20% della massa totale dei red- diti da lavoro (in pratica, la massa dei salari), la fa- scia pagata meno bene (il 50%) percepisce circa il 35% e la fascia intermedia (il 40%) percepisce circa il 45% del totale. Non si tratta certo di un’ugua- glianza perfetta…». Il divario tra ricchi e poveri nei 34 paesi dell’area Ocse non è mai stato così alto, ha denunciato il se- gretario generale dell’Organizzazione, lo spagnolo Angel Gurria: il 10% più ricco della popolazione del- l’area Ocse ha un reddito di 9,6 volte superiore al 10% più povero. Un divario che era di 7,1 volte negli anni Ottanta e di 9,1 volte negli anni Duemila. La ricchezza risulta sempre più concentrata in po- che mani: oggi in Usa il 10% più ricco si accaparra il 50% del reddito e l’l% il 20%, e anche il divario tra le retribuzioni alte e quelle basse è aumentato in modo spropositato. La deriva: dalla «produzione del valore» alla «estrazione del valore» A partire dagli anni Ottanta, con l’avvento delle po- litiche liberiste di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher, scomparsa nel 2013, in Gran Bretagna, abbiamo assistito, spesso anche collaborando, ubriacati del nuovo dictat «più mercato e meno stato», allo smantellamento dello stato sociale, allo sventramento della «politica» e all’intronizzazione del liberismo più spinto che ha dato la stura a quello che poi sarebbe stato chiamato «turbocapi- talismo». Gli stati e la loro «politica» hanno fatto a gara a spalancare le porte al capitale, comunque e a qual- siasi condizione, anche «asfaltando» la dignità del lavoratore. Consegnandosi a mani alzate a quello sviluppo senza regole così come è richiesto e pre- teso dal sistema finanziario internazionale: «am- biente criminogeno», lo ha definito Massimo Gian- nini ( Repubblica , 31 ottobre 2013), che ha annien- tato l’economia reale cannibalizzando il lavoro, di- struggendo i diritti, destrutturando la democrazia. La nostra critica all’economia capitalistica e finan- ziaria non parte dal rimpianto di paradisi perduti e di fatto mai esistiti e ad oggi inesistenti; ma da una presa d’atto che evidenzia l’aggravarsi della realtà, il preoccupante deterioramento della vita sociale, l’ampliarsi della forbice che divide, a livello mon- diale e all’interno delle nazioni, i pochi ricchi sem- pre più pochi e sempre più ricchi dai molti poveri sempre più numerosi e sempre più poveri. Scrive Vandana Shiva: «La crescita illimitata è il sogno degli economisti, degli uomini d’affari e dei politici. È considerata una misura del progresso. In conseguenza il Prodotto interno lordo (Pil), inteso come misura della ricchezza delle nazioni, è emerso sia come la cifra più potente, sia come il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia la crescita economica cela la povertà che essa crea attraverso la distruzione della natura che a sua volta conduce a comunità prive della capacità di provvedere a se stesse» ( Qualevita , n. 154, dicembre 2013). E aggiunge: «Il concetto di crescita è stato propo- sto come misura di mobilitazione di risorse durante la seconda guerra mondiale. Il Pil è basato sulla creazione di confini artificiali e fittizi, presuppo- nendo che se si produce ciò che si consuma, non si produce. In effetti la “crescita” misura la conver- L’Italia povera N el 2014, 1 milione e 470 mila famiglie (5,7% di quelle residenti) è in condizione di povertà as- soluta, per un totale di 4 milioni 102 mila per- sone (6,8% della popolazione residente). La povertà assoluta è sostanzialmente stabile sul territorio. Si attesta al 4,2% al Nord, al 4,8% al Centro e all’8,6% nel Mezzogiorno. L’incidenza di povertà assoluta scende all’au- mentare del titolo di studio. Tra le famiglie con stranieri la po- vertà assoluta è più diffusa che nelle famiglie composte sola- mente da italiani. Istat, «La povertà in Italia», luglio 2015 DOSSIER MC RICCHEZZA E POVERTÀ

RkJQdWJsaXNoZXIy NTc1MjU=