Missioni Consolata - Dicembre 2015
48 MC DICEMBRE 2015 Chiesa proibisce severamente di costringere o di indurre e attirare alcuno con inopportuni raggiri ad abbracciare la fede» (Ag 13), lo fece perché questo succedeva e si sentiva la necessità di de- nunciarlo. Dopo il Concilio È vero, il Concilio mise delle basi luminose nel cammino missionario della Chiesa, ma da quelle basi chiare scaturì una crisi, che coincise con la più ampia crisi della cristianità e della società. Venticinque anni dopo, l’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II parlò di uno «slancio indebolito»: si era detto che tutta la Chiesa era missionaria e che tutto era missione, si era comin- ciato a parlare di missione del catechista, del gruppo dei cantori, dell’organizzatore dei tornei di calcio parrocchiali, delle signore che spazzavano la chiesa, ecc., ma allora, che cos’era la missione? Per fare chiarezza e delimitare il campo si era ag- giunta l’espressione «ad gentes», cioè «alle genti». Ma dove si trovavano «le genti», o, più popolar- mente, i pagani? Al bar e all’università, ad esem- pio, o per strada, allo sballo del sabato notte e nei nuovi templi del consumismo. I contorni dell’azione missionaria diventarono meno netti, meno facili da decifrare in modo uni- voco, e questo generava un certo spaesamento. In- tanto la strada che era stata aperta stimolava la riflessione. Allora, abbandonato l’esagerato risalto dato alla Chiesa, si cominciò a parlare soprattutto di annuncio di Cristo. E Cristo, era unico salva- tore, o salvatore di tutti gli uomini? Nel primo caso l’accento cade sull’esclusività (unico, via tutti gli altri), nel secondo caso, al contrario, sull’inclu- sività (nessuno è escluso dalla salvezza di Gesù, a meno che la rifiuti). Una frase che cominciò a risuonare dopo il Conci- lio affermava che «forse non è necessario che tutti diventino cristiani, ma è necessario che a tutti sia offerta l’esperienza di Gesù». È più o meno quello che affermava Paolo VI quando scriveva «gli uo- mini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, ma potremo noi salvarci se trascuriamo di annunziare il Vangelo?» (En 80). Non mancò chi disse: «Gesù va bene, ma il cristia- nesimo, come lo conosciamo, no, perché è troppo segnato dalla cultura occidentale. Se le prime co- munità ebbero la saggezza di accettare che i Van- geli fossero quattro, e non uno solo, quattro buone notizie riferite a Gesù, come potremmo noi avere la pretesa di proporre un unico catechismo per tutti i continenti, le lingue e le culture? Annun- ciamo il Regno, questo ha fatto Gesù, e questo deve fare la Chiesa se vuole essere missionaria». Speranze e delusioni Più si rifletteva sulla missione, più questa diventava vera, ma anche, allo stesso tempo, evanescente. C’era perfino da scoraggiarsi. Ecco perché il papa nel 1990 parlò di uno «slancio indebolito». Alcuni elementi del Concilio prendevano sempre più forma: in tutti i popoli ci sono i germi, i semi del Regno. Gesù l’aveva presentato così: un piccolo seme, che già si trova in ognuno, profondamente immerso nella cultura. Non è trasportato da fuori. Quando il missionario arriva, deve abbandonare i suoi programmi per scovare, difendere e aiutare quel seme a crescere. La Chiesa è chiamata a incul- turarsi per diventare «chiesa negra, indigena, asia- tica», con i propri modi di esprimersi, mantenendo come suo unico criterio la fedeltà al Regno di Dio. Ovviamente nel dibattito c’era chi faceva l’avvo- cato del diavolo: «Non c’è il pericolo che, invece di un grande affresco, alla fine il Regno risulti un mosaico confuso, fatto di tanti piccoli pezzi sepa- rati tra di loro che perdono di vista l’insieme? Inoltre, il seme del Verbo, è seminato solo nelle culture o anche nelle religioni, che delle culture sono parte fondamentale?». Un altro documento dello stesso Concilio, la Di- chiarazione sulle relazioni della chiesa con le reli- gioni non cristiane, Nostra Aetate , apriva all’in- contro rispettoso con le varie realtà religiose. Ma la considerazione per esse era un mezzo utile o un fattore di confusione nell’impegno missionario? I teologi cercarono di destreggiarsi tra dialogo e missione, dialogo e annuncio, con il timore che il dialogo potesse diventare una strategia nuova e più raffinata di «conquista» delle persone. Che fare? Si doveva allora tacere riguardo alla supe- riorità della fede in Cristo per dialogare con tutti? Si iniziò a considerare tutte le religioni come realtà che offrono salvezza. Non allo stesso modo, ma ognuna contiene gli elementi sufficienti per dare, in quella certa realtà e cultura, le risposte necessarie alle persone. Tutte le religioni sono strade di salvezza, come aveva sostenuto anche Paolo VI: «Gli uomini si potranno salvare anche per altre strade». Il problema della salvezza è un problema che lasciamo a Dio. Non diciamo che questa o quella religione sia la migliore, semplice- mente ringraziamo Dio che, attraverso tanti mezzi e strumenti diversi, le persone incontrino risposte per realizzare se stesse. Nuovi linguaggi e contenuti Se ne è fatta di strada da quando il Concilio ha parlato di dialogo, di semi del Verbo, di incultura- zione. Forse il cammino non piace a tutti. Forse si è andati troppo lontano o, forse, fuori percorso. Ma tant’è: la missione continua a essere il labora- torio di esperienze nuove, in cui certi esperimenti hanno fortuna e altri sono un disastro, alcuni sono accettati e altri no, anche se interessanti, come lo erano state le riduzioni gesuitiche del Sudamerica o il tema dei riti cinesi ai tempi di Matteo Ricci. Il pluralismo religioso ci mette di fronte alla realtà: ai popoli non mancano le religioni, espresse in forme culturali, in strutture cultuali, in miti e dot- trine, in esigenze morali, ma le diverse fedi puntano
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