Missioni Consolata - Ottobre 2015
44 MC OTTOBRE 2015 nella foresta per soccorrere i malati e sfamare i so- pravvissuti resi fragili dalle malattie, si comportava come un curatore e un parente: un papà. Se l’infermiera della missione dedicava il massimo sforzo alla cura efficace di un paziente, l’ammalato che si ristabiliva dava più importanza alle atten- zioni ricevute e al fatto di essere stato accolto e sfa- mato all’interno della casa «di assi», che non alla patologia da cui era stato curato. Se la demarcazione del territorio indigeno, per i missionari, era la condizione di sopravvivenza fi- sica e culturale degli Yanomami, per questi ultimi rappresentava la conservazione dell’equilibrio di un socio-cosmo abitato da molti esseri visibili o invisi- bili. Se per i missionari il progetto di «educazione glo- bale» e lo studio della lingua portoghese erano gli strumenti che dovevano essere messi nelle mani degli Yanomami affinché potessero difendersi dalle minacce sempre piú pressanti della società circo- stante, per gli Yanomami l’apprendistato dei modi di vita dei bianchi e la convivenza costituivano un ampliamento delle possibilità di esistenza e un si- stema di relazioni desiderato. Nonostante le prospettive siano distanti e le letture degli avvenimenti siano diverse, la condivisione della storia ha reso e rende possibile un dialogo nella pratica quotidianità. I missionari sono stati ri- conosciuti come «quasi parenti», il cui comporta- mento, in alcuni casi, si approssima ai criteri ade- guati di socievolezza. Sono persone che possono es- sere istruite nella lingua e nei costumi, che sanno prendersi cura, accompagnano, piangono i defunti senza pronunciarne il nome - per non risvegliare la tristezza e il risentimento per la perdita recente - o festeggiano una nascita. Il segreto sta nella condivisione Il cammino della missione è stato percorso con grande dispendio di energia. Dai due lati. Non es- sendoci l’imposizione di un programma predefinito, si configura come il sentiero tracciato dal Signore, lungo il quale siamo guidati dallo Spirito a prestare attenzione, aprendo gli occhi e entrando - quando accolti - in un mondo differente, con atteggiamenti di condivisione: - togliendo le scarpe per camminare in sentieri sco- nosciuti - fra spine, zone allagate, liane - per incon- trare la destinazione indicata da Dio nella storia di questo popolo; - imparando un’altra lingua - che questo popolo ci insegna con grande disponibilità e allegria - per po- ter ascoltare gli appelli e i sogni e tentare di balbet- tare qualche risposta; - cercando di conoscere - condotti dalle nostre guide - la foresta, i fiumi, le montagne e tutti gli es- seri che vi abitano, perché questo è il mondo in cui vivono i nostri fratelli e perché ogni messaggio - an- che se trascendente - ha senso solo se dice qualcosa a partire da un mondo conosciuto; - apprezzando cibi diversi, perché è consumando insieme un abbondante frullato di banana - alle volte... troppo abbondante -, un pezzo di focaccia di mandioca cotta sulla brace e una porzione di tapiro affumicato, che si costruisce la familiarità e lenta- mente la fiducia; - imparando a stendersi nell’amaca, a caricarsela sulle spalle per accompagnare le persone nei loro lunghi spostamenti e appenderla, un’altra volta, fra due alberi o in un’abitazione comunitaria dove gli Yanomami si riuniscono per celebrare, piangere un morto o discutere sulle decisioni prese lontano, da estranei che minacciano la loro vita. È attraverso questi gesti di completa condivisione che si costruisce la missione. Le persone vengono cambiate dall’incontro. Si conciliano speranze, so- gni e aspettative, con un messaggio che i missionari - fragili messaggeri - scoprono insieme agli Yano- mami: un messaggio che è vita contro i progetti di morte. Avvicinarsi e rimanere Concludiamo con alcune parole che Davi Kope- nawa diceva ai missionari della Consolata riuniti in assemblea nel luglio 2012: «Io capisco che - essendo voi religiosi e conoscendo Dio - Lui vi ha mandati per difendere la vita del nostro popolo e del pia- neta. So che, da molti anni, la Chiesa si è posta lungo il sentiero dell’incontro con i popoli indigeni. La Chiesa sa che l’indigeno non è un “animale” [mentre settori della società lo trattano come fosse tale, ndr ], sa che è persona, che è stato creato dal- l’autorità del cielo, cosí come sono stati creati i non- indigeni. Il compito della Chiesa è di non lasciare far guerre, di portare la pace, mentre, dall’altro lato, esistono nemici molto forti, alleati a politici, che vogliono impossessarsi delle ricchezze della
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