Missioni Consolata - Agosto/Settembre 2015
42 MC AGOSTO-SETTEMBRE 2015 Kim ovvero Suor Marie-Agnes F orse ho sbagliato a venire. Ma no, no! Non devo demoralizzarmi così. Ho imparato tante cose nella vita senza perdermi d’a- nimo, imparerò anche l’italiano. Ma è così difficile, sarà un’impresa ardua. Suor Zyma mi ha avvisata, «Vedrai, all’inizio ti sembrerà impos- sibile riuscire a capire qualcosa, figurati par- lare!», non si sbagliava. Non c’è nulla che acco- muni il coreano all’italiano, nulla, non un suono, non una parola, non un gesto. Una cantilena, ecco cosa mi ricorda sentire parlare questi ita- liani, una di quelle cantilene che le nonne sussur- rano ai nipoti per farli addormentare, sugli ar- gini del fiume Han. Analizzo chi mi sta di fronte, chi mi sta accanto, chi mi sorride mentre io fac- cio finta di comprendere ciò che sta avvenendo qui, intorno a me, elargendo sorrisi compiaciuti a tutti. A turno le mie compagne di classe parlano, chi sorridendo, chi arrossendo, chi con uno sguardo severo. La donna che ha parlato per ul- tima ha dei lunghi capelli lucenti, scuri come il sesamo nero che noi coreani mettiamo un po’ dappertutto. Gli occhi di questa giovane donna sorridevano, poi si sono riempiti di nero per inte- nerirsi di nuovo dopo un breve istante. Chissà cos’ha raccontato, vedevo la sua mente vagare tra i ricordi, le sue mani accartocciarsi una sul- l’altra, le sue dita fremere; ho letto la sua storia attraverso quelle unghie rosicchiate, come in se- greto. Ora però tutti gli occhi sono puntati verso di me, l’insegnante mi sorride, mi chiama per nome e con la mano fa un gesto che interpreto come: «Tocca a te, Kim». E allora io raddrizzo le spalle, mi accomodo meglio sulla sedia, mi schia- risco la voce, faccio finta di non capire che tocca proprio a me e guardo la mia vicina di banco con sguardo interrogativo. Lei con un’occhiata mi ri- manda all’insegnante e allora decido di dire le tre parole che so, quelle che ho voluto conoscere subito, appena arrivata a Milano, dopo un volo di diciotto ore proveniente da Seoul. «Io sono Ma- rie-Agnes, suora missionaria, perché Dio è amore». Sorridono tutte, come inebriate dalla mia rivelazione, come se un anelito della mia de- vozione le avesse avvolte in un abbraccio caldo, come se il nome del nostro Dio fosse solo Amore, carità, fratellanza. Mi scrutano, impazienti che il mio racconto si gonfi di particolari ma «Non so italiano», bisbiglio. Nasce forte in me il desiderio di raccontarmi, di aprirmi a loro; il potere del sorriso delle mie nuove amiche riesce ad allonta- narmi dall’odore della violenza che la mia Terra ha subito, il ricordo di tutti quei poveri e della loro corsa verso il buio, nelle braccia putrefatte della segregazione. Qui c’è dolcezza, c’è un nido per un piccolo che sta per emettere il suo primo vagito, c’è forza, c’è coraggio. Vorrei raccontare a tutte loro che anch’io un giorno sono stata co- raggiosa e ho voluto inseguire Gesù, fino in fondo. Fino a Cuneo. Proprio qui, dove il Movi- mento Contemplativo Missionario ha accettato la mia richiesta di permanenza, dove i miei ses- santa anni non hanno spaventato nessuno, dove la mia esperienza è necessaria e il mio aiuto im- portante. Qui, dove sto dimenticando il sapore del Kimchi e mi sto arricchendo di nuove sensa- zioni, qui dove nessuno vende bachi da seta ai lati delle strade e dove le formiche rosse sono un pericolo, non un sollievo per il mal di stomaco, qui dove i fiori non si mangiano ma si mettono nei vasi. Qui, uno spazio nuovo, colorato, dove l’insegnante mi guarda e con un gesto accarezza tutte noi. E io dico: «Qui è gijeok 10 , qui è mira- colo». Malaika Mi guardo le mani, le mie mani callose, ora umide, ora gelide. Stringo tra e dita una penna nuova di zecca e aspetto il mio turno, qui, in quest’angolo di pace. Mi sembra che i miei polmoni necessitino di più ossigeno, adesso che Malik sta per affacciarsi sul mondo. Oggi scalcia più del solito e nemmeno la radice di zenzero mi aiuta a calmarlo. Poso la penna, dopo aver scritto «Scuola-Italiano» sulla prima pagina di questo quaderno sgangherato. Mi piace proprio essere dove sono, anche se le mie mani non hanno fermezza; le guardo e penso a tutti gli anni in cui mi hanno seguita, in cui hanno raccolto fagioli, bacche di caffè, hanno pu- lito pesci, aragoste, hanno lavato conchiglie e co- ralli, hanno asciugato lacrime e hanno stretto al- tre mani con passione. Il corallo, che incanto il corallo. Mi porto le dita al naso ma non è rimasto nulla di quell’odore di sale, di schiuma, di mare. Sogno spesso di essere ancora sulla barchetta di legno di John: il silen- zio navigava con noi, seduto sulla cassa dipinta di giallo, rispettato come un ospite atteso da tempo. Quando raggiungevamo il luogo scelto iniziavamo a canticchiare e andavamo avanti per ore, finché il buio non ci intimava di tornare a riva. Mio figlio invece non crescerà con il mare all’o- rizzonte, mio figlio nascerà in questa città piena di luci e di rumori, piena di macchine che cor- rono, piena di persone che si svegliano in un luogo chiuso per recarsi in un altro luogo, ancora più chiuso. Proprio questo mi manca: lo spazio aperto che mi riempiva gli occhi e più guardavo il cielo e più forte respiravo, tanto da sentire nei polmoni, nelle ossa, in ogni mia vena, tutto quel- l’universo che brillava intorno a me. Non c’era un
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