Missioni Consolata - Agosto/Settembre 2015

AGOSTO-SETTEMBRE 2015 MC 41 DOSSIER MC SONO ANCH’IO ITALIA ragazza seduta davanti a me, mi cattura, mi pene- tra negli occhi. Quella ribellione di forma e colore mi ricorda una sonata di Hindemith, note intrec- ciate in tempesta, da districare con il mio ar- chetto con movimenti secchi, il gomito alto e lo sguardo fiero. La ragazza parla di sé in un italiano piuttosto incomprensibile, ma l’espressività dei suoi occhi mi basta per capire che in lei c’è tra- sparenza, c’è bontà, c’è un animo ancora inno- cente. Ora tocca a me, devo presentarmi e non c’è un direttore d’orchestra a indicarmi il tempo da seguire. Luciana Il chiarore lunare ema- nato dal volto della mia vicina di banco mi fa male agli occhi. Perché è così timida? Perché ha detto solo tre parole, perché tocca già a me? Che cosa posso dire io, ora? Questa Inese ha raccontato che è una musicista, che suona la viola all’Opera, che è madre... E io? Sarò concisa, sarò sincera. Questo corso di Italiano io lo devo fare. Sono obbligata a venire a scuola tre volte alla settimana, dopo o prima del turno. Se voglio tenermi stretto il la- voro all’ospedale devo imparare a parlare questa lingua. Me l’ha detto tante volte la Signora Mi- rella: «Luciana, ieri ti ho detto di andare nel re- parto F, non di pulire gli uffici del terzo piano! Se continui a non capire ciò che ti dico, ti dovrò sosti- tuire». E allora impariamolo questo italiano, que- sta musica in «a» e in «e», queste parole lunghis- sime e queste frasi romanzate. Lo so, non mi sono mai sforzata, cercavo di capire con gli occhi, di co- gliere tra le sfumature degli sguardi ciò che la gente aveva intenzione di dirmi. Sul lavoro però non ha mai funzionato, bisogna essere veloci, nes- suno ripete, nessuno scandisce lentamente la frase «I bagni del reparto ortopedia sono ancora da pulire», oppure «La mensa è un inferno, corri a sistemarla». Un inferno, chiamare la mensa un in- ferno... Questa è bella... Trenta milioni di poveri in Colombia, l’ho letto lunedì su El Espectator. Io sono stata obbligata a partire. Li ricordo bene quei giorni: all’improvviso tutto è diventato insu- stancial , impalpable 6 . Era come correre dietro ad un sasso lanciato con rabbia nel Caquetà. E io cor- revo, correvo, sapevo di doverlo prendere ma come in un incubo i miei piedi erano pesanti, an- corati al rosso stridente della mia terra; il fiume non rallentava la sua corsa, anzi, scorreva sempre più rapido e pareva ridesse mentre i miei occhi tentavano di penetrarne le acque, cercando quel sassolino tra una miriade di altri sassolini. Impos- sibile. Serviva un milagro 7 . Un giorno poi un aereo è decollato e atterrato. Per tre volte. Italia, freddo, ciao Orinoco, ciao Antio- quia. Vagavo tra i ricordi, mi perdevo tra gli scarni rimasugli del mio io, mi sforzavo di sentire nella bocca il sapore salato della pelle di mia madre, vo- levo toccarla, volevo pizzicarla, fingevo di farmi trasportare dagli alisei oltre al Maracaibo. Ma no, nulla, di fronte a me. Solo grigio, fumo, macchine, grigio, freddo, fumo. E ancora grigio, e ancora fumo. Sono passati tre anni e adesso, in questa classe, circondata da altre donne che hanno sensazioni comuni alle mie, sento di voler essere felice men- tre tento di presentarmi. «Ciao a tutte, sono Lu- ciana e sono colombiana. Sono arrivata da Bogotà tre anni fa e il mio sogno più grande è quello di en- trare ancora una volta nel santuario di Las Lajas per mano a mia madre, durante la processione del Corpus Cristi. Per me Italia significa ossigeno, dopo una lunga apnea. Un po’ come gustare una fetta di lechona 8 sorseggiando un tinto 9 bollente». Teste che si voltano verso di me, mi sento studiata e provo disagio, ma in un attimo tutto cambia e tutto l’universo femminile racchiuso qui mi dà pace, mi dà conforto, mi aiuta a liberarmi dal fan- tasma del fiume che scorre veloce, dalla mia corsa senza fiato, dal muro nero che mi aspetta sempre alla fine di quella pazza corsa. I miei occhi vagano nella classe, tra capelli ispidi e treccine, tra niqab e dashiki, tra maglie di cachemir e unghie laccate di rosso; mi blocco sulle braccia muscolose di Ju- dith, una donna namibiana che trasmette energia, le cui vibrazioni positive giungono fino a me e mi pervadono di quella magia che solo l’armonia può creare. Il muro nero diventa luce, la luce diventa sentimento, il sentimento diventa azione. E l’a- zione mi rende donna, tra altre donne, in corsa per mano alla vita. © Claudia Caramanti

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