Missioni Consolata - Aprile 2015

48 MC APRILE 2015 O ggetto di scellerati piani di sventramento e risanamento dal «degrado», lo storico quartiere di San Berillo, a Catania, è in- vece uno straordinario esempio di come la convivenza con l’altro non solo è possibile, ma è già una realtà. Come testimonia padre Giuseppe Gliozzo, parroco della chiesa del Crocifisso della Buona Morte. Una volta conosciuto l’esito della domanda di asilo, gli immigrati sono invitati a lasciare i centri d’accoglienza, perdendo i benefici che il sistema di protezione dovrebbe aver garantito loro almeno per tutto il periodo di attesa: vitto, alloggio e un pocket money giornaliero. Da quel momento en- trano in un altro limbo, costretti ad aggirarsi come fantasmi nelle nostre città. A Catania c’è un luogo dove in tanti hanno trovato ospitalità, o almeno un rifugio temporaneo, prima di riprendere il viaggio verso Nord: il quartiere di San Berillo. Berillo, originario di Antiochia, città dell’allora provincia romana della Siria, avrebbe portato, se- condo la tradizione, il Cristianesimo in Sicilia, di- venendo il primo vescovo della città etnea. Mentre camminiamo per le vie del quartiere, veniamo fermati da un uomo distinto che ci PADRE GLIOZZO: UN DIALOGO SU EMARGINATI E CHIESA GIÙ LEMANI DASANBERILLO DI S ILVIA Z ACCARIA Un quartiere di Catania oggetto di politiche di risanamento fin dagli anni Venti del Novecento. Un «porto di mare» che da decenni accoglie l’umanità più emarginata, dalle prostitute alle trans, dai tossicodipendenti ai migranti, raccontato da chi lo vive, e da chi, come padre Giu- seppe Gliozzo, parroco del Crocifisso della Buona Morte dal ‘72, lì spende la sua vita per gli altri. avverte, con garbata gentilezza e affabilità tipica- mente siciliane: «Qui ci sono le cocotte ». Poi ci prende sotto braccio, con l’intento di allontanarci da quella zona «poco raccomandabile». Insiste per offrirci un caffè. Ci sediamo al bar di Piazza Bernini, davanti al Teatro Massimo che è in scio- pero: «Un paese senza teatro è un paese morto», c’è scritto sugli striscioni appesi a un cornicione. Scopriamo così, di fronte a un caffè, la storia del quartiere più centrale e antico di Catania, oggetto di una serie di piani «sventramento» e «risana- mento» sin dagli anni Venti del secolo scorso, quando la fiorente industria dello zolfo indirizzava i notabili catanesi verso l’ipotesi della demolizione radicale: il collegamento del quartiere popolare, caratterizzato da una urbanizzazione caotica e fit- tissima, con la stazione e il porto era troppo angu- sto per una città che aspirava a diventare la «Mi- lano del Sud». La II Guerra Mondiale bloccò il progetto, ripreso nel 1957, quando lo sventra- mento venne effettivamente realizzato: i 30.000 abitanti furono deportati a San Leone, che da quel momento diventò San Berillo Nuovo, e del quar- tiere originario rimase solo un pezzetto. In questi vicoli stretti da cui non si vede il mare e nei quali non entra mai il sole, gli immigrati arri- vati di recente, o quelli storici come i senegalesi e i tunisini, convivono pacifica- mente con un’altra uma-

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