Missioni Consolata - Marzo 2015
In quel preciso istante mi sentii per un attimo un «per- dente» sotto ogni aspetto, ma subito risuonò in me la pa- rola del Signore che diceva: «Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Capii allora che se volevo contribuire a vincere l’iniquità del peccato calato su tutta l’Europa, era necessario donare tutto me stesso, perdermi totalmente nei gorghi del male per ri- trovare nuovamente la mia vita trasformata in Cristo. Questo per i nazisti non comportò nessun problema? No, per loro dovevano essere giustiziati dieci prigionieri, non importava chi fossero. Ci rinchiusero pertanto in mi- nuscole celle dove potevamo a malapena sederci. Le celle vennero poi murate. La condanna prevedeva la morte per mancanza di cibo e acqua. Un’agonia lunghis- sima che si consumava tra disperazione e atroci soffe- renze. Decisi allora di alleviare la disperazione dei miei compagni pregando ad alta voce e innalzando canti reli- giosi al Signore. E i tuoi compagni di sventura come reagirono a que- sta tua iniziativa? Alcuni unirono le loro voci alle mie preghiere e ai miei canti, dopo alcuni giorni però i più deboli cominciarono a spegnersi. Dopo ben quattordici giorni in quattro era- vamo ancora in vita. I nazisti decisero allora di soppri- merci con una iniezione di acido fenico. Così ebbero ter- mine le nostre sofferenze. Padre Massimiliano Kolbe si spense il 14 agosto 1941, le sue ultime parole, mentre gli facevano la letale inie- zione nel braccio, furono: «Ave Maria». Insieme ai suoi compagni venne quindi gettato nel forno crematorio e le sue ceneri si mescolarono a quelle di tanti altri sven- turati. Così finì la vita terrena di una delle più belle fi- gure del francescanesimo della Chiesa polacca e univer- sale. Papa Paolo VI lo beatificò il 17 ottobre 1971, men- tre papa Giovanni Paolo II lo proclamò Santo il 10 otto- bre 1982. Il suo fulgido martirio resta una testimo- nianza esemplare della coerenza cristiana vissuta in tempi e ambienti terribili. Don Mario Bandera, Missio Novara Quale fu la tua destinazione finale? Il 28 maggio del ’41 mi trasferirono ad Auschwitz insieme ad altri 320 compagni di sventura. Una volta arrivati in quel tristemente famoso campo di sterminio, fui messo insieme agli ebrei perché sacerdote, e mi diedero una ca- sacca con il numero 16670. Com’era la vita al campo? Ricordo con sofferenza gli appelli che le guardie si diver- tivano a fare a tutte le ore, anche nel cuore della notte, per vedere se qualche prigioniero era fuggito. Io venni in- serito nella squadra adibita ai lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri raccolti nelle camere a gas e desti- nati al crematorio. La vita di ognuno non contava proprio nulla agli occhi degli aguzzini di Auschwitz. Alla fine di lu- glio fui destinato alla squadra addetta alla mietitura nei campi, un lavoro certamente più dignitoso di quello che ero stato costretto a fare fino ad allora. Quindi, pur nella terribile condizione di prigioniero in un campo nazista, perlomeno potevi uscire per mietere il grano. Questo, che innegabilmente era, rispetto allo standard della vita dei prigionieri, un vantaggio, si trasformò in un incubo quando uno dei miei compagni riuscì a sottrarsi al controllo delle guardie e a fuggire. Secondo l’inesorabile legge che vigeva ad Auschwitz, per ogni prigioniero che fuggiva, altri dieci venivano destinati al bunker della morte. Ci radunarono quindi nello spiazzo centrale e a caso i nazisti prelevarono dieci disgraziati da sopprimere. Chissà che tortura anche per chi non era punito, assi- stere a quelle scene. Effettivamente… una volta scelti i dieci disgraziati, vidi uno di loro disperarsi lanciando alte grida al cielo, ur- lando che lui era un papà di famiglia e che i suoi figli aspettavano la fine della guerra per rivederlo. Presi allora la decisione di offrirmi al suo posto. Un uomo con una forte personalità come la tua, che aveva ottenuto risultati brillanti in ogni parte del mondo, si ritrovava così nella condizione terribile e sublime allo stesso tempo di offrire la propria vita per salvarne un’altra. I Perdenti
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