Missioni Consolata - Gennaio/Febbraio 2015

34 MC GENNAIO-FEBBRAIO 2015 L’ attuale popolazione dell’Uruguay non in- clude al suo interno minoranze indigene precolombiane. Quando arrivarono gli spa- gnoli all’inizio del sedicesimo secolo, le ma- lattie che questi portarono contribuirono all’estinzione della popolazione indigena. I Charrua furono i più fieri avversari dei conquistadores. Qualche secolo dopo, l’e- roe nazionale dell’Uruguay, Josè Gervasio Artigas, inte- grò i pochi indigeni Charrua rimasti nel suo processo di liberazione dal giogo coloniale, promettendo loro terra da coltivare una volta conquistata l’indipendenza. Ma già verso la metà del secolo XIX rimanevano solo pochi nuclei di indigeni che sempre più si ritiravano in zone di- sabitate dell’interno e lentamente ma inesorabilmente si ridussero di numero. Oggi non rimane più nessuna traccia di questa etnia del Rio De La Plata. A ricordare questo popolo resta solamente lo strug- gente poema epico di Juan Zorrilla de San Martin: «Ta- baré», pubblicato nel 1888, nel quale, con versi straor- dinari, il grande scrittore uruguayano racconta la storia di un amore impossibile tra il cacicco indio, Tabaré, e Blanca, una donna spagnola espressione di un altro mondo e di un’altra cultura. Un poema che, meglio di qualunque romanzo, esprime l’anima profonda del sen- timento nazionale degli uruguayani narrando l’incon- tro-scontro tra l’innocente naturalezza degli indigeni e la violenza assurta quasi a mistica di vita dei nuovi arri- vati. Gli usi e costumi, i miti e le tragedie del popolo Charrua, sconfitto sul piano storico, diventarono così il racconto epico, quasi una saga leggendaria della nascente na- zione uruguayana, un marchio indelebile che suggellerà per sempre l’anima profonda del «Pueblo Oriental» del Rio Uruguay. Possiamo dire allora che il popolo Char- rua, un popolo perdente come tanti altri popoli indigeni precolombiani, si è preso la sua rivincita lasciando un nome glorioso come una eredità culturale che va ben al di là di un succinto richiamo storico. Le tradizioni Char- rua permeano tutt’oggi la vita di un popolo che non vuole dimenticare, e men che meno ripetere, gli errori del passato. Don Mario Bandera, Missio Novara Questa concatenazione di avvenimenti, di scara- mucce, contrasti, lotte in campo aperto tra voi e gli spagnoli, portò a un episodio particolarmente ver- gognoso, ricordato come il genocidio di Salsipuedes. Puoi raccontarci come andò? Il generale Fructuoso Rivera si accordò con i portoghesi, anche loro presenti sulle sponde del Rio De La Plata, pre- cisamente alla Laguna Merin, per delineare i confini tra Brasile e Uruguay. Lui cedette ai portoghesi una larga fa- scia di terra a condizione che questi non interferissero nella sua politica di eliminazione degli indigeni. Il nipote di Fructuoso, Bernabé Rivera, con le sue truppe spinse molti Charruas sulle rive del torrente Salsipuedes, e lì, l’11 aprile 1831, fece una vera mattanza eliminando quasi tutta la presenza charrua nell’Uruguay. Quei pochi che si salvarono scapparono verso il Nord o verso il Bra- sile, trovando accoglienza nelle varie tribù, ma si può dire che, come comunità, i charrua si estinsero del tutto. Per ironia della sorte, suo zio, il generale Fructuoso, nel 1830, era stato eletto primo presidente dell’Uruguay! Così voi quattro foste inviati in Francia per essere mostrati agli europei… Non solo, anche per essere studiati come uomini della pietra che avevano vissuto per secoli senza conoscere le varie invenzioni che si erano succedute nel mondo. Però dopo gli studi sul nostro corpo, sulla nostra testa, sulla nostra lingua, fummo venduti a un circo che, girando per l’Europa, mostrava gli «Indios del Rio De La Plata». Però il nome Charrua non è scomparso del tutto, e pur essendo l’Uruguay una nazione formata quasi esclusivamente da discendenti dell’emigrazione eu- ropea, la «Celeste», ovvero la nazionale di calcio del piccolo paese sudamericano, è conosciuta come la nazionale «Charrua». Si vede che per cancellare i crimini commessi, gli attuali abitanti dell’Uruguay, che non hanno nessuna colpa del loro passato, e per identificarsi di fronte al resto delle na- zioni latinoamericane, si onorano del termine «Charrua», un po’ come i neozelandesi del rugby che, pur essendo quasi tutti discendenti dai coloni inglesi, prima dei loro incontri si esibiscono nella «Haka», la danza tipica degli indigeni Maori originari della Nuova Zelanda. 4 chiacchiere con...

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