Missioni Consolata - Dicembre 2014
La faccenda terminò lì oppure ebbe un seguito? Nel febbraio del 1909 il capo Longange vedendo che por- tavo ancora al collo lo scapolare, me lo strappò con forza e lo gettò per terra, ordinò quindi a un suo sottoposto di colpirmi sulla schiena con una frusta fatta di pelle di ele- fante, che aveva in cima dei chiodi. Un’autentica flagellazione! Fu proprio una punizione terrificante. A ogni colpo di fru- sta mi venivano strappati lembi di pelle dalla schiena provocando ferite terribili, fino a scoprire le ossa. Mi la- mentavo, chiedevo pietà ma i miei carnefici continua- rono inesorabili fino a perdere il conto delle frustate. Svenni in un bagno di sangue. Che successe dopo? Fui chiuso nell’essiccatoio del caucciù con le catene ai piedi. Restai lì nel mio sangue per alcuni giorni finché venni portato nella foresta per evitare che denunciassi l’accaduto. Denunciare? A chi? A un ispettore della Società Anonima Belga che aveva l’e- sclusiva di quella zona del Congo. Dalla foresta riuscii a trascinarmi davanti a lui che s’impietosì e impedì a Van Cauter di uccidermi. Mi fece curare e trasferire in una lo- calità più sicura. Lontano dai tuoi aguzzini recuperasti le forze op- pure la gravità delle ferite e la mancanza di cure ap- propriate aggravarono le tue condizioni? Passai sei mesi di tormenti inenarrabili, curato dai mis- sionari. Ma le ferite erano troppo profonde e già infette e purulente per poter guarire. Avevo dolori atroci che continuarono fino ai miei ultimi istanti di vita. Mi feci mettere al collo lo scapolare della Madonna del Carmine stringendo in mano la corona del rosario, perché volevo che tutti sapessero - neri e bianchi - che morivo profes- sando la fede cristiana. Sentendosi vicino alla morte, Isidoro chiese ai missionari gli ultimi Sacramenti. Invitato a perdonare colui che lo aveva ridotto in quello stato, Isidoro rispose: «L’ho già perdonato e quando sarò in Paradiso ho intenzione di pregare anche per lui». Morì, abbracciando lo scapolare e il rosario, il 15 agosto 1909. Di lui e della sua vita e della sua morte esemplare ci restano due documenti ufficiali, quello del battesimo e un altro che attesta l’iscrizione alla Confraternita dello Scapolare del Carmelo. Il 24 aprile 1994 in piazza San Pietro a Roma, dopo aver rico- nosciuto in Isidoro Bakanja le virtù eroiche degli autentici testimoni cristiani, Giovanni Paolo II lo proclamò beato. don Mario Bandera, Missio Novara Ammetti che eri contento, dì la verità… Si, ero molto contento e soprattutto godevo della simpa- tia dei monaci trappisti che mi avevano formato nella ca- techesi e accompagnato nel cammino dell’iniziazione cri- stiana. Da loro ricevetti in dono un rosario e lo scapolare del Carmelo come segno esteriore della nuova condi- zione che stavo vivendo e della fede cristiana che avevo abbracciato. Quegli oggetti erano per me più dell’u- niforme che distingue il soldato dal semplice cittadino. Erano la prova evidente, quasi un attestato pubblico, del mio essere diventato cristiano. Dopo aver ricevuto questi sacramenti come prose- guì la tua vita? Lavorai come domestico presso uno dei sovrintendenti belgi, ma quando questi fu trasferito, venne un certo Van Cauter detto Longange: un uomo dispotico e crudele, ol- tre che ateo dichiarato. Gli impiegati bianchi della compagnia del caucciù come reagivano di fronte alle conversioni? Non le accettavano proprio, perché nella loro avida men- talità i neri dovevano lavorare dall’alba al tramonto, do- menica compresa, per fornire le quote di prodotto richie- sto. Chi si fermava per pregare o per partecipare a un culto religioso era visto come un lazzarone, un lavativo e anche un cattivo esempio per gli altri. Accettavi questa situazione? Forte del messaggio del Vangelo cercavo di convincere anche i miei compagni a non lasciarci sfruttare dall’avi- dità dei coloni bianchi e riaffermavo la mia dignità di uomo anche di fronte ai soprusi che ci erano inflitti. Ma il sovrintendente Longange, infastidito da come in- fluenzavo i miei compagni, mi ordinò di togliermi lo sca- polare. A un mio fermo e dignitoso rifiuto mi fece punire con venticinque colpi di frusta! Sopportai la punizione di fronte ai miei compagni e rimasi irremovibile. Lo scapo- lare era il segno dell’essere diventato cristiano e per que- sto non me ne sarei mai privato. # Due immagini di quei giorni terribili. Qui sotto : un padre, Nsala di Wala nel distretto di Nsongo, davanti alla mano e al piede di sua figlia di cinque anni, vittima di punizione collettiva del villaggio per non avere raccolto la quantità giornaliera di caucciù (foto della missionaria Alice Harris, di cui Nsala era schiavo). A destra : come un lavoratore congolese veniva punito (foto di Roger Casement, 1864-1916).
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