Missioni Consolata - Dicembre 2014
MC ARTICOLI DICEMBRE 2014 MC 61 gente. Ogni giorno file lunghis- sime di persone venivano all’o- spedale certe di poter trovare cure. E capitava che, per ringra- ziarlo, portassero a Giorgio del miele, della frutta o una gallina. C’era tanta gratitudine. Lasciare ad altri e ricominciare Giorgio maturò un po’ per volta la consapevolezza che a un certo punto sarebbe stato giusto «la- sciare ad altri il compito di conti- nuare», così mi disse, e insieme, nel 2006, decidemmo di lasciare l’ospedale di Matiri. Andammo in Tanzania, a Mbweni, a vedere un health centre che funzionava poco: bisognava risistemare tutto, pochi credevano che quella strut- tura potesse riprendere vita. La sfida era grande e bisognava rim- boccarsi le maniche, ma le moti- vazioni che portavamo nel cuore erano ancora più grandi della sfida. I lavori iniziarono a luglio, e il 5 ottobre 2006 aprimmo: in meno di un mese la struttura era già piena. L’ospedale era attrez- zato con macchinari per la diagno- stica e per le operazioni. Di nuovo capitava che Giorgio facesse l’a- nestesista durante un parto: ope- rava, risvegliava la paziente e ria- nimava il neonato. Una situazione difficile che lo spinse ad assumere medici locali che lo aiutassero, ma anche del personale specializzato, oltre alle suore presenti. I pazienti aumentarono così tanto che deci- demmo di avviare una seconda sala operatoria. «Sei musulmano?» Spesso andavo in ospedale da Giorgio. In genere era lui a cercarmi, e io sapevo che quando erano le suore a chiamarmi era per- ché lui aveva nuova- mente dato il proprio sangue, in emergenza, prima di operare. Lui era così, sempre pronto a donare. Ricordo di un giorno in cui doveva operare un uomo appena cono- sciuto, di religione musulmana. Sarebbe stata un’operazione diffi- cile. Prima di farlo accomodare sul tavolo operatorio, Giorgio chiese al paziente: «Sei musul- mano?». E lui rispose di sì. Lui al- lora gli disse: «Io sono cattolico. Tu prega il tuo Dio e io prego il mio, in modo che guidi le mie mani». Insieme si fermarono a pregare. L’operazione andò bene. Tutti avevano rispetto, stima, gra- titudine per il «dottor George». Anche in questo caso il villaggio trasse vantaggio dall’ospedale per il molto lavoro che si era creato. C’erano molti «dala dala» che venivano e andavano, sem- pre carichi di persone. Storie africane di un chirurgo atipico A un certo punto Giorgio e io ca- pimmo quanto fosse cruciale in- segnare quello che sapevamo. Lo scopo era di rendere tutti capaci nel proprio lavoro, in modo che sapessero svolgerlo bene. In primis i medici che dovevano operare, ma anche gli altri, e per il personale analfabeta Giorgio pensò a una scuola. Giorgio, negli ultimi mesi prima di lasciarci nell’aprile del 2011, ha scritto un libro dal titolo «Storie africane di un chirurgo atipico». Lo ha scritto perché in quelle pa- gine ognuno possa ritrovare la sua presenza, il suo spirito, la sua persona. E anche per incoraggiare chi, come lui, vuole aiutare i po- veri della terra. Ha anche voluto che la sua opera continuasse, e a tale scopo ha fondato l’associa- zione che porta il suo nome («Giorgio Giaccaglia Stegagnini») per lo sviluppo dell’urologia in Africa. Lui di talenti ne aveva ricevuti tanti. Sapeva di essere stato man- dato in Africa da qualcuno con la «Q» maiuscola, e voleva resti- tuire i doni ricevuti con opere di carità e con una grande fiducia nei tanti ai quali insegnava a lavo- rare in ospedale e che desidera- vano, come lui, dedicarsi a curare gli ultimi. Angela Trebeschi
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